Perché sappiamo poco e niente sull'uccisione di Paolo Borsellino? Perché dietro quell'attentato non c'è solo mafia ma anche altro, soprattutto altro. Più che per Capaci, che già aveva messo in ginocchio l'Italia. E quel soprattutto altro, insieme a una ristrettissima fazione di Cosa Nostra, che ha ispirato la seconda strage dell'estate di trent'anni fa.

Cinquantasei giorni dopo la morte di Giovanni Falcone c'era bisogno di qualcosa di egualmente spaventoso e clamoroso: serviva fare saltare in aria il paese. I mafiosi (e non tutti, circostanza non irrilevante) si sono prestati e sono caduti nel tranello. Loro hanno pagato il conto, gli altri sono al riparo.

La realtà che ci fa paura

La realtà è così evidente, direi banale, che per trent'anni abbiamo avuto paura a riconoscerla. Una paura di cui siamo ancora prigionieri. Così ci siamo accontentati del copione che avevano preparato per stravolgere la scena, complici funzionari dello stato di alto rango e magistrati arrivati al posto giusto nel momento giusto.

I fatti ci rivelano tanto, sicuramente molto più delle “prove” esibite e smontate nelle aule giudiziarie.

Con quell'altra bomba, così ravvicinata nel tempo e con vittima designata l'uomo più legato a Falcone, la mafia non ne avrebbe tratto alcun vantaggio. Al contrario, ne avrebbe pagato a caro prezzo tutte le conseguenze come poi implacabilmente è accaduto.

Non c'è siciliano adulto, in grado di intendere e di volere, che non la pensi così oggi come in quel pomeriggio d'estate quando ancora bruciavano le carcasse delle auto blindate e zaffate di nafta ammorbavano l'aria in via Mariano D'Amelio.

A Palermo, la notte del 19 luglio del 1992, siamo tornati tutti a casa con un solo pensiero: questo massacro è la fine dei Corleonesi. E così è stato. Con quell'autobomba hanno assassinato Borsellino e “suicidato” la Cosa Nostra di Totò Riina. Un piano perfetto.

Totò Riina raggirato

Foto LaPresse Torino/Archivio storico Storico anni '90 Salvatore Riina Salvatore Riina, detto Totò (Corleone, 16 novembre 1930 – Parma, 17 novembre 2017[1]), è stato un mafioso italiano, legato a Cosa nostra e considerato il capo dell'organizzazione dal 1982 fino al suo arresto, avvenuto il 15 gennaio 1993. Veniva indicato anche con i soprannomi û curtu, per via della sua bassa statura[2], e La Belva, adottato per indicare la sua ferocia sanguinaria[3]. nella foto: Salvatore Riina nell'aula bunker Photo LaPresse Turin/Archives historical Hystory 90's Salvatore Riina in the photo: Salvatore Riina

Il boss della strategia stragista, che non ha precedenti nella secolare storia di Cosa Nostra, è stato trascinato in quella che si è rivelata la mossa più sconsiderata della mafia da quando la mafia esiste.

L'hanno messo nel sacco, l'hanno raggirato con chissà quali promesse.

Dopo la morte di Borsellino sulle famiglie si è abbattuta una repressione straordinaria.

Prima hanno catturato lui, Riina. Poi è toccata a tutti i capi della Cupola, latitanti che prima non si trovavano mai (che formidabile coincidenza: fantasmi che all'improvviso vengono arrestati uno dopo l'altro nel giro di qualche mese), i loro patrimoni confiscati, le segrete delle carceri speciali, gli ergastoli.

La mafia immersa nella sua tragedia più grande per colpa di “soci” che sono rimasti invisibili.
La regia è altrove e se ne rintracciano indizi fin da prime indagini. Mai un'investigazione ha raccolto in sé tante anomalie e forzature, mai tanti inganni sono riusciti a passare al vaglio di procure della repubblica, corti di assise e corti di assise di appello fino a ricevere il bollo ultimo della Cassazione.

Basta rileggere le veline poliziesche e le carte processuali per individuare nomi, omissioni, imbeccate sospette.

Al “depistaggio più grande della storia giudiziaria italiana” hanno partecipato in tanti, ciascuno ha fatto la sua parte.

I servizi segreti - “Uomini in giacca e cravatta che sembravano non sudare”, hanno riferito i poliziotti testimoni - piombati nell'immediatezza sul luogo della strage.

Il procuratore capo Giovanni Tinebra che affida le indagini a Bruno Contrada, che era il numero tre dei servizi di sicurezza e che sarebbe stato arrestato cinque mesi dopo per concorso in associazione mafiosa.

Gli inquirenti che, proditoriamente, non ascoltano mai Paolo Borsellino nelle settimane che separano Capaci da via D'Amelio.

Una giustizia piegata


Il depistaggio di cui tanto si parla non è partito dopo l'attentato, il depistaggio è partito prima. Pentiti fabbricati in laboratorio, atti spariti, procuratori ben disposti a prendere ordini dagli apparati. Una giustizia piegata a interessi non di giustizia.
Per scoprire alcuni momenti della macchinazione c'è voluta un'indagine sull'indagine. Praticamente la procura di Caltanissetta, quindici anni dopo, ha ricominciato daccapo portando alla luce piccoli frammenti di verità. Ma non sufficienti a farci capire chi ha davvero voluto quella strage.

I mandanti veri del 19 luglio 1992 sono sempre ben protetti e, dopo il tempo passato, sarà difficile sperare ancora nelle inchieste e nei processi. A meno che qualcuno non parli. Qualcuno fuori dalla mafia siciliana, qualcuno dentro lo stato.
 

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