Nel corso della storia umana la disuguaglianza si è ridotta in modo stabile solo come conseguenza di guerre, di rivoluzioni, del crollo di intere civiltà (il collasso dell’impero romano), o di pandemie. Lo racconta Walter Scheidel in un affascinante libro di storia globale, La grande livellatrice (Il Mulino, 2019), uscito pochi mesi prima lo scoppio della pandemia.

Sostiene fra l’altro che anche la grande opera della sinistra riformatrice contro la disuguaglianza, la costruzione dei welfare states in Europa occidentale fra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, si deve a ben vedere alla necessità di vincere la sfida ideologica incarnata dal mondo comunista, e innescata con la Rivoluzione d’Ottobre.

La rottura degli anni Ottanta

Ridurre le disuguaglianze è quindi una sfida difficile, anche per la politica democratica. Difatti nei paesi avanzati già dagli anni Ottanta, dopo essere diminuite per alcuni decenni, le disuguaglianze hanno ripreso a crescere.

Per un complesso di ragioni: il crollo dell’alternativa comunista, certo, e accanto a esso l’affermarsi dell’ideologia neo-liberale che ha posto in secondo piano il discorso sui diritti umani (civili, sociali, ambientali) proprio del liberalismo di sinistra, per concentrarsi invece sul solo arricchimento individuale; ma anche per motivi demografici e tecnologici, cioè l’invecchiamento della popolazione e la ridotta crescita della produttività, che hanno reso più difficili le politiche redistributive.

Dato che, appunto, fare politiche redistributive era diventato più difficile, fra gli anni Novanta e Duemila anche una parte del campo progressista ha preferito abbandonarsi all’illusione neo-liberale, secondo cui la crescita del Pil e i meccanismi del mercato basterebbero da soli a risolvere tutti i problemi (anche le ingiustizie sociali, o perfino la mancanza di democrazia nelle nuove potenze economiche).

Era la via più comoda, quella peraltro più volentieri sostenuta dalle élite dei paesi democratici. E le tendenze alla crescita della disuguaglianza proprie delle società capitalistiche si sono rimesse in moto.

Ora l’illusione paga il conto, dato che quei problemi (le disuguaglianze e il capitalismo autoritario) non si sono risolti e anzi per molti versi si sono aggravati, e si è aggiunta a essi anche la questione ambientale.

La livella del Covid?

Su questa situazione è piombata la pandemia del Covid. Il suo impatto sulla disuguaglianza è dibattuto fra gli studiosi, e certo differisce fra i paesi.

Una tesi è che a livello globale il Covid possa ridurre le disuguaglianze: dato che le entrate (maggiori) di imprenditori e professionisti tendono a ridursi più di quelle dei lavoratori dipendenti, in genere meglio tutelati dal welfare.

Ma questo esito dipende dai settori (il fatturato delle imprese legate all’e-commerce è aumentato) e dai sistemi di welfare (negli Stati Uniti i lavoratori subordinati sono stati molto meno garantiti che in Europa). E dipende anche dalle strutture produttive di ogni paese.

Dove c’è una maggiore prevalenza di piccoli e piccolissimi imprenditori, spesso con redditi non elevati (come in Italia), il loro impoverimento si può anche tradurre in un aumento delle disuguaglianze.

Nell’insieme è ancora presto per avere stime affidabili. Nel frattempo abbiamo però due dati certi. Da un lato, sappiamo che nel 2020 il numero di poveri è aumentato: la Caritas parla di un raddoppio del numero di persone assistite nei mesi più intensi del lockdown, con una crescita peraltro maggiore al Sud (+150 per cento), e di un incremento in particolare dei «nuovi poveri» (il 45 per cento del totale, a fronte del 31 per cento nell’Italia pre-Covid). Dall’altro lato, i risparmi sui conti correnti degli italiani (famiglie e imprese) sono pure cresciuti, nei primi nove mesi del 2020 di circa 130 miliardi (+7 per cento), e questo perché chi ha disponibilità ora consuma e investe meno.

Tendenze simili si osservano anche negli altri paesi avanzati, a cominciare dagli Stati Uniti. Ovunque si riducono gli investimenti a fronte di un aumento della ricchezza risparmiata, ma aumenta anche la povertà: le fasce sociali più basse se la passano peggio, mentre per gli altri l’economia si ferma. In aggiunta, vi è largo consenso fra gli studiosi sul fatto che in termini sociali (istruzione, sanità, servizi) il Covid ha probabilmente accentuato i divari, a danno di chi non è garantito o vive in contesti più svantaggiati. Insomma, l’attuale pandemia non sembra finora aver svolto quel ruolo di «grande livellatrice» descritto da Scheidel per le epoche passate.

Una regia internazionale

Il tema della disuguaglianza rimarrà quindi in agenda nel mondo post-Covid. In aggiunta, si porrà il tema di investire in modo produttivo la ricchezza accumulata. L’ampio campo della green economy, la sanità e le biotecnologie, la telematica e la robotica sono i settori che potranno fare da motore dell’innovazione, aprendo così a una nuova era di sviluppo meglio orientato alla qualità della vita. La politica europea, a partire dall’accordo per il «Next Generation Eu», sembra averlo compreso. Meno chiaro pare invece un altro aspetto.

Per attuare efficaci politiche contro le disuguaglianze (e anche per favorire l’impiego della ricchezza in modo produttivo, scoraggiando la rendita), sono necessari accordi a livello internazionale atti a contrastare la speculazione finanziaria.

Questi accordi consentirebbero di salvaguardare gli aspetti positivi della globalizzazione, cioè quella liberalizzazione del commercio che (lei sì) negli ultimi decenni ha consentito a miliardi di persone di uscire dalla povertà, riducendo i divari fra nazioni ricche e nazioni povere.

Con il sistema di Bretton Woods, durante il miracolo economico, accordi del genere erano in vigore e favorivano gli investimenti in tecnologie innovative (l’Italia ne fu grande beneficiaria, anche per ragioni geo-politiche).

In modo simile oggi occorre lavorare a un nuovo sistema finanziario internazionale, incentrato sulla lotta ai paradisi fiscali, la tassazione delle multinazionali in base al fatturato realizzato in ogni paese (contrastando il dumping fiscale e sociale), la fiscalità progressiva e il controllo sui movimenti di capitale a breve termine (ripensando quindi a totale liberalizzazione del mercato di capitali attuata negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso).

Questa è una parte fondamentale della sfida che hanno davanti le classi dirigenti progressiste, nei prossimi anni.

Gli Stati Uniti di Biden hanno lanciato di recente l’idea di un «summit delle democrazie», da tenersi nei primi mesi del 2021: per noi europei può essere una buona occasione per iniziare a porre questi temi nell’agenda politica globale. Sapendo che vi saranno molte resistenze, oggi come in passato. Ma che la lotta alle disuguaglianze è ineludibile, se vogliamo salvare le nostre società aperte. Se vogliamo salvare le nostre democrazie, che si fondano sul principio dell’uguaglianza.

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