Giorgia Meloni ha deciso di non rinunciare al processo contro Domani, anche dopo essere stata eletta presidente del Consiglio. E lo stesso ha fatto con Roberto Saviano, scrittore e giornalista del Corriere della Sera.

L’uso scorretto del sistema giudiziario (ovvero della legge, dei codici e delle corti civili e penali) per limitare la libertà di espressione e di stampa non è un fenomeno soltanto dell’Italia. È un problema presente a livello mondiale e negli ultimi anni ha guadagnato terreno, grazie al silenzio e all’indifferenza generale. Lo dice una nuova ricerca dell’Unesco, pubblicata in italiano dall’osservatorio Ossigeno per l’informazione (si può trovare sul sito ossigeno.info).

Di cosa parla? Di un triste fenomeno che conosciamo bene in Italia. Da noi questo “uso scorretto” porta ogni anno ad almeno cinquemila querele e citazioni civili infondate, pretestuose, temerarie per diffamazione a mezzo stampa (dati del ministero della Giustizia pubblicati da Ossigeno per l’informazione nel 2016). Così si trasformano in strumenti intimidatori che danno vita a processi lunghi e costosi. I giornali e i giornalisti vengono messi in difficoltà, anche se hanno esercitato correttamente la loro attività. Questi processi si aggiungono alle migliaia di minacce e intimidazioni rivolte in altre forme, di solito violente, ai giornalisti, ai blogger, ad altri operatori dell’informazione e ai difensori dei diritti umani. L’osservatorio di Ossigeno per l’informazione ha documentato pubblicamente oltre seimila intimidazioni di questo tipo negli ultimi dieci anni. Dunque noi di Ossigeno sappiamo bene di cosa si tratta. Ma non sapevamo ancora come vanno queste cose nel resto del mondo.

Il rischio della censura

Vanno molto male, ci dice ora questa ricerca dell’Unesco, che indica la strumentalizzazione della giustizia da parte di chi teme la verità dei fatti come lo strumento più usato ovunque negli ultimi anni per comprimere la libertà di espressione. Ovvero, di quel diritto fondamentale che consente ai giornalisti di pubblicare le notizie sgradite al potere e a chiunque di esprimere opinioni e critiche senza subire ritorsioni.

Da solo, questo dato impressionante dovrebbe spingere chi ancora non l’ha fatto (nel mondo politico, sindacale dell’informazione, nel parlamento e nei partiti) ad aprire gli occhi e a impegnarsi, cercando modi meno retorici di quelli finora adoperati per affrontare questo problema che ha le dimensioni di un flagello, che produce effetti molto gravi: quelli di una censura impropria, non dichiarata ma molto efficace.

Perché questa è la parola più adatta a definire un fenomeno che permette di mettere in difficoltà i giornalisti e i dissidenti. Succede anche nei paesi democratici.

In tutto il mondo

Altri aspetti di questa ricerca dell’Unesco aiutano a inquadrare meglio anche la situazione italiana. Parliamo del sistema legislativo.

In 44 paesi nel mondo, negli ultimi cinque anni ci sono state leggi (la ricerca ne conta 57) che non hanno tenuto conto dell’obbligo di tutelare il diritto di informazione. Lo hanno fatto ad esempio configurando la diffamazione come un reato e punendola addirittura con il carcere, o trascurando le prerogative dei giornalisti, o limitando l’autonomia dei giornalisti e dei difensori dei diritti umani codificata come un diritto dai massimi trattati internazionali.

Nell'Europa centrale e orientale è aumentato il ricorso alla legge penale per punire la diffamazione, che è un reato in 15 dei 25 stati della regione, e nella maggior parte di essi prevede sanzioni detentive. Dieci paesi hanno abolito tutte le disposizioni generali contro la diffamazione e l'insulto e altri quattro hanno attuato una parziale depenalizzazione.

Sono rimaste in vigore leggi punitive verso chi esprime legittime critiche al potere e ai potenti e si sono diffuse – in numero sempre maggiore e in ogni paese, dice l’Unesco – le citazioni per danni e le querele temerarie utilizzate come “schiaffi” (Slapp) per scoraggiare chi pubblica notizie scomode e opinioni sgradite.

Il bilancio degli ultimi dieci anni, conclude amaramente la ricerca dell’Unesco, è insoddisfacente, ma il terreno perduto si può ancora recuperare. Come? Giornali, giornalisti, editori, difensori dei diritti devono fare meglio la loro parte. In ogni paese governi, forze politiche, legislatori devono accogliere e attuare le raccomandazioni loro rivolte dalle organizzazioni internazionali e richiamate in questa ricerca, innanzitutto depenalizzando la diffamazione a mezzo stampa: una scelta fondamentale che in Italia è tabù, che nel nostro paese nessuno ha finora ha voluto proporre. Ma bisognerà discuterne.

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