Sempre più spesso le campagne pubblicitarie delle aziende hanno come protagonisti non i fondatori, i proprietari, ma i lavoratori, gli operai. Non vediamo solo Giovanni Rana magnificare i suoi tortellini, o Ennio Doris raccontarci la storia gloriosa di Mediolanum, oppure Francesco Amadori che ci rassicura che i suoi polli sono i migliori.

I marchi hanno deciso di dare la parola  chi lavora, con l’idea di rendere trasparente la macchina produttiva ma anche di rebrandizzare il lavoro: non subordinazione, fatica, o magari sfruttamento, ma dedizione, amore per il prodotto e per i clienti.

Tra i primi in Italia ci sono stati Franco, vero operaio specializzato di Poltrone e sofà, che esaltava la qualità dei suoi stessi manufatti, o i lavoratori di McDonald’s dello spot girato da Gabriele Salvatores che dichiaravano sorridendo come lavorare nei fastfood fosse impegnativo certo ma come l’azienda favorisse le assunzioni a tempo indeterminato e le possibilità di carriera.

Abbiamo visto lavoratori Barilla, Conad, Intesa San Paolo, ecc… diventare il volto dell’impresa. Fino a Renatino, casaro protagonista della campagna fallimentare del consorzio del Parmigiano Reggiano.

Anche nelle ultime campagne di Amazon a prendere parola spesso sono degli operai. Per esempio Mohammed: nello spot parte della campagna “Storie di chi lavora” dice, indossando la mascherina e in un italiano imperfetto con accento straniero, che “la mia parola preferita è hustle hard, è un modo per dire Continuare sempre a lottare… Mia sorella è nata con disabilità, che è una cosa difficile… I miei genitori sono molto contenti perché riesco ad aiutarli economicamente… La mia squadra mettono qualche canzone per farmi fare qualche balletto… Mi fa sentire che siamo tutti famiglia”.

Le immagini che vediamo scorrere alternano ritratti di famiglia e momenti in cui Mohammed smista pacchi dentro Amazon, senza soluzione di continuità.

Non è facile elencare tutte le forme di manipolazione che questo spot usa. La prima evidente è il tokenism, un modo di sembrare inclusivi solo simbolicamente.

Dare la parola a Mohammed e lasciarlo parlare in un pidgin dovrebbe significare che Amazon è un’azienda inclusiva e antirazzista, ma cosa fa di concreto Amazon per promuovere politiche di emancipazione e di contrasto al razzismo?

La seconda questione riguarda la rimozione degli elementi problematici: sembra che il lavoro nei magazzini Amazon sia un modo dolce di passare le giornate. In realtà i turni stressanti, la ripetitività dei compiti e la riduzione drastica delle pause fa sì che lavorare dentro Amazon sia per molti un’esperienza alienante oltre che una gran fatica.

Quando Mohammed dichiara di ispirarsi a un principio, hustle hard, viene in mente la il pezzo del 2010 di Ace Hood intitolato proprio Hustle Hard in cui rappa con i versi: “Stessa vecchia merda, solo un giorno diverso / Provi a sfangarla, in qualche modo / Mamma ha bisogno di una casa / Il bambino ha bisogno di scarpe / I tempi stanno diventando duri / Indovina cosa devo fare. La risposta è: hustle hard”. Potremmo tradurre: farsi il culo. Suona un po’ diverso, no?

La questione più delicata riguarda la disabilità. Lo spot sottende una forma implicita di esaltazione dell’abilismo: chi è abile lavora e aiuta, chi ha disabilità viene aiutato. Nello spot la sorella non ha parola. Questo tipo di narrazione della disabilità è oggi sempre più irricevibile.

Le ragioni sono autoevidenti, per approfondirle possiamo recuperare un po’ di bibliografia sui disability studies, a partire dal libro del 1990 dello studioso marxista Michael Oliver, The politics of disablement, in cui si mostrava come la disabilità viene stigmatizzata dall’esaltazione capitalistica di un abilismo raccontato solo in termini di efficienza produttiva.

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