Tutti vogliamo ritornare alla «normalità», ritornare al mondo di prima. Ma ricordiamoci che, per l’Italia, quella normalità non era una situazione invidiabile. Al contrario. Negli ultimi venticinque anni noi siamo, fra tutti i grandi paesi avanzati, quello che è cresciuto meno.

Siamo, nell’Eurozona, il paese con le maggiori disuguaglianze: di genere, geografiche, come pure generazionali, a danno di tanti giovani che infatti emigrano (già, perché bisogna anche ricordare che il nostro vero problema, economico e sociale, negli ultimi due decenni è stata l’emigrazione, non l’immigrazione).

L’Italia aveva istituzioni inefficienti e apparentemente irriformabili e un elettorato alla frenetica ricerca di «uomini forti» da incoronare, che con altrettanta disinvoltura ha detronizzato. In questo quadro, il Covid – oltre al suo carico di vite umane – ha fatto ripiombare il reddito (mai veramente ripresosi dopo la crisi del 2008) ai livelli degli anni Novanta; ha acuito disuguaglianze, fra chi era garantito e chi non lo era, a danno di chi viveva in aree mal collegate o in contesti familiari e sociali più difficili.

Ma questo shock pandemico può anche aprire opportunità nuove. In Europa, con l’avvio finalmente di una politica espansiva, l’inizio di un percorso (attenzione: solo l’inizio) di maggiore coesione e solidarietà. E in Italia.

I malati d’Europa

Noi siamo entrati in questa crisi come il grande malato d’Europa, un paese cui tutti guardavano con istintiva preoccupazione. E siamo invece ora visti (pur nel mezzo di un’emergenza ancora in corso, nel mondo) come una nazione relativamente affidabile, che ha dato (finora) tutto sommato buona prova di sé, meglio di altri più blasonati campioni del mondo avanzato. Molti non se l’aspettavano. E si sono dovuti ricredere.

Di fronte al ritrovato senso civico degli italiani. Di fronte alla prova espressa dai nostri governanti, in Italia e in Europa, come pure dalle forze sociali e dai corpi intermedi, dai sindacati e da tutti coloro che hanno garantito la tenuta del Paese.

È capitato altre volte, nella nostra storia, che proprio durante le fasi più buie, quando sembrava che avessimo toccato il fondo, gli italiani trovassero la forza e il modo per ribaltare la prospettiva. Accadde con la Resistenza, che ha posto le basi per la costituzione repubblicana e quindi per il miracolo economico – certo, in un favorevole contesto internazionale.

Accadde prima ancora con la «crisi di fine secolo», nell’Ottocento (lo scandalo della Banca Romana, la sconfitta di Adua, l’involuzione autoritaria fino alla strage di Bava Beccaris): i successivi governi della sinistra liberale segnarono un cambiamento radicale nelle politiche, non più repressive ma progressiste e inclusive, e nelle classi dirigenti, un cambiamento che rese possibile – di nuovo, in un favorevole contesto internazionale – il decollo giolittiano.

Non a caso quei due periodi furono caratterizzati anche da un grande fermento culturale, riconosciuto nel mondo (dalla pittura al cinema). Ci hanno resi nel complesso il Paese prospero e avanzato che noi ancora siamo.

Può accadere ora la stessa cosa? Il contesto internazionale è di nuovo favorevole: sono in arrivo i miliardi del Recovery Fund! L’Europa ha smesso di essere matrigna, si sente dire. È dunque giunta l’ora di un nuovo riscatto?

I soldi non bastano

Temo che i fondi europei, da soli, non basteranno. Sono condizione necessaria, ma non sufficiente. Si illude chi spera il contrario. In fondo, compie lo stesso errore di chi pensa che il nostro declino sia dovuto all’entrata nell’euro. Il declino italiano si deve all’inadeguatezza delle nostre istituzioni pubbliche (amministrazione e giustizia, innanzitutto), delle nostre imprese (troppo piccole, poco innovative), degli stessi fondamentali per lo sviluppo (a cominciare da istruzione e ricerca), di fronte alle sfide di un nuovo mondo globale, dopo il crollo del Muro.

Certo, in un contesto in cui svalutazione e debito per pompare la crescita non erano più possibili (ma queste misure di per sé non garantiscono nulla: infatti negli anni Settanta e Ottanta peggiorarono i nostri fondamentali, non li migliorarono).

Il declino si deve all’opportunismo di buona parte della nostra classe dirigente, politica e imprenditoriale (fatte le debite eccezioni, come Prodi e Ciampi), che da lì promana, e che infatti ha cercato di affrontare le sfide della competizione globale con politiche di breve respiro: bonus e sconti fiscali (peraltro a vantaggio della rendita e non dei fattori produttivi), flessibilità del lavoro per inseguire un’impossibile competizione sui costi con l’Asia.

Anziché provare a riformare seriamente (e a rafforzare dove necessario) l’amministrazione, che anzi è stata resa ancora più debole e inefficace. Anziché investire con programmi efficaci e per questo non facili sulla riduzione delle disuguaglianze, che anzi sono state colpevolmente lasciate crescere.

Anziché puntare con decisione sull’istruzione e sulla ricerca, che anzi sono state ulteriormente depauperate inchiodandoci agli ultimi posti dell’Ocse. Anziché fare politica industriale, per investire nei settori strategici, e più innovativi, dal digitale alla filiera della green economy, alle biotecnologie.

È per questi motivi che l’Italia è risultata ultima nella crescita, da venticinque anni, fra tutti i paesi avanzati. È per questi motivi che risulta ultima anche nell’eurozona, nonostante i nostri partner condividessero con noi le stesse restrizioni (e alcuni errori, in passato) della moneta comune. È per questi motivi che non basterà una semplice iniezione di liquidità.

Redistribuire 

Le risorse, e le energie, vanno indirizzate nelle grandi aree dove finora sono mancate, e indicate anche dall’Europa. Su politiche che mettano insieme sviluppo ed equità: la lotta alle disuguaglianze, fra uomini e donne e fra Nord e Sud, anche per liberare tutto il potenziale produttivo del Paese; la ricerca e la scuola, a partire dagli asili nido fino a nuove università di eccellenza; il digitale e le altre infrastrutture essenziali, specie al Sud e nelle aree interne. E su politiche che uniscano sviluppo e qualità della vita: la riconversione ambientale, dai processi produttivi delle imprese ai consumi dei cittadini, dalla riqualificazione delle città al risanamento del territorio (spesso vittima di interessi altrettanto miopi); la sanità, pubblica e di qualità, che è anche un settore ad alto capitale umano e ad altissima innovazione.

Questo va fatto con progetti nuovi, aggiuntivi, che richiedono anche un’amministrazione più forte in grado di prepararli.

Il rischio più grande è invece che il Recovery Fund sia usato per smaltire gli arretrati dei ministeri, con conseguenti riduzioni di spesa che poi serviranno a finanziare i soliti bonus e sconti a pioggia. No. È necessaria una politica diversa. Che faccia sue fino in fondo le sfide dell’equità e del benessere. E con il sostegno consapevole dei cittadini. Solo così potrà aprirsi davvero una stagione nuova.

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