Ci risiamo: torna giugno e monta il chiacchiericcio anti-Pride. Il Pride non ha più senso di esistere, si dice. Ideologia, si aggiunge: ben altri i modi, le forme, per ottenere diritti. Chi critica le parate dell’orgoglio queer, è chiaro, non ci va, non le conosce: altrimenti saprebbe che – se non ci si trova proprio gente in giacca e cravatta – i cortei sono però pieni di persone in t-shirt, polo, jeans e bermuda.

Di amici e famiglie, di bambini e cani. Tantissima gente qualunque, felice di ballare, cantare, bere una birra, accanto a shorts e torsi nudi, certo, ma non è irrilevante che i Pride si tengano in media con 35 gradi all’ombra: lo scenario non è poi molto diverso da quello tipico di concerti o festival estivi.

Questioni di temperatura a parte, i Pride sono perfetti e attuali come sono, con le loro presunte carnevalate e “oscenità”, e finché ci saranno critiche e polemiche continueranno ad avere senso, perché il loro spirito è proprio quello di smentire che a un altro ordine corrisponda un disordine.

I Pride sono luoghi itineranti protetti in cui l’immobilismo della “decenza” può essere scosso, contaminato: è stato così anche per me a volte.

Io, che sono membro della comunità LGBT, ho trovato nel Pride un’occasione di sgretolamento dei miei pregiudizi, ho attraversato in modo imprevisto la distanza illusoria che ci porta a contrapporci sulla base di un accessorio, di un pezzo di pelle esposta, di un momento di gioco.

Come esseri umani siamo tutti pieni di resistenze automatiche e inutili, infestanti e dolorose, e il Pride è un ottimo esercizio di demolizione delle difese insensate. In questo servono anche agli eterosessuali e ai cisgender, e anzi a loro caldamente li consiglio: mischiando differenze e tipi umani, i Pride ci ricordano che ci sono molti più modi di esistere, rappresentarsi e stare insieme rispetto a quelli concessi dalle partizioni ereditate, e che la norma è un limite perlopiù immaginario oltre al quale scorre moltissima vita, moltissime vite di cui non ha alcun senso avere paura, che è blasfemo (questo sì) e osceno (davvero questo sì) odiare.

Vite che non devono elemosinare nulla, né rendersi presentabili per ottenere “tolleranza”, ma esistono ed espongono il puro dato di fatto della loro esistenza, vite che, durante questo mese – simbolicamente, festosamente –, si danno forma aggregata, dunque propriamente politica, attraversano lo spazio pubblico ricordandoci che la lotta, soprattutto quando si parla di identità e relazioni, di amori oppressi e sogni proibiti, può assumere molte forme diverse. Tutte utili ed eloquenti, tutte legittime.

Non è cosa da poco: prima di cedere a facili borbottii, sarebbe ora di tenerne conto. Per iniziare a spostarsi da sé, e aprirsi alle storie degli altri: un esercizio necessario, specie di questi tempi.

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