Sette arresti a Piacenza e sequestro dell’intera caserma Levante. Le accuse: arresti illegali, traffico e spaccio di stupefacenti, estorsioni, violenza, tortura. Almeno una moglie e un figlio a conoscenza delle azioni illegali. Dubbi su madri e padri, che dichiarano di non sapere niente.

La memoria si spalanca ed esplodono traumi orribili: Cucchi, Aldrovandi, Uva, le recenti torture nel carcere di Torino. Traumi che sono in primis di chi li ha subiti. E che poi sono traumi di tutti noi. Non so più nemmeno quanti documenti ho letto, quanti documentari ho visto, quanti video ho guardato attonita sul G8 di Genova. Io, e tutti noi.

I nomi e i ricordi di questi traumi, di questi orrori, saltano fuori nelle discussioni di tutti, in questi giorni, negli articoli, in rete, in tv. Non è possibile non nominarli. Non è possibile non pensarci.

Perciò, ci ho messo un po’ prima di decidere di scrivere questo pezzo. Che contributo posso dare io, ho pensato, a un evento di cui stanno parlando già tutti? Come non aggiungere un chiacchiericcio inutile a importanti riflessioni già stese su tutti i tipi di media?

Poi mi sono ricordata una cosa. Un piccolissimo episodio che è successo a me. Una cosa da niente, rispetto all’enormità di cui stiamo parlando.

Sono stata adolescente negli anni Novanta in una Bari un po’ strana. C’era un posto, piazza Umberto, vicino alla stazione. La maggior parte degli adolescenti baresi si riuniva lì. Era, quell’adolescenza, un periodo di gruppi: fricchettoni, technoraver, fighetti, punkabbestia, tossici, alternativi. Ci chiamavamo così, odiandoci gli uni gli altri, guardandoci in cagnesco chiusi a riccio nella nostra etichetta di appartenenza ma frequentando, tutti, lo stesso posto. Ci odiavamo cordialmente.

Poi, c’erano i topini. I topini erano i figli adolescenti dei malavitosi, molto più pericolosi dei malavitosi adulti, almeno per noi. Un malavitoso adulto sapeva benissimo quando sguinzagliare la sua forza. Un malavitoso non si spreca per un pugno di ragazzini. I figli adolescenti dei malavitosi, i nostri topini, erano l’opposto. Erano i re del mondo. Dodici, tredici, quattordici, quindici, sedici anni, sfrecciavano nella nostra piazza sui loro motorini truccati e costosissimi, gli occhi a palla dentro cui scorreva la cocaina, e almeno un coltello per ciascuno nascosto nemmeno troppo bene.

Se noi, divisi in gruppi, ci odiavamo cordialmente, i topini erano tutto il contrario: ci volevano morti. Volevano la nostra piazza. E ciò che vuole un topino, un topino deve ottenere. C’è dell’onnipotenza in quegli sguardi che possono ucciderti anche solo sbattendo una palpebra.

Noi però non ce ne volevamo andare. E dopo una serie infinita di minacce e risse in cui perdevamo sempre, un giorno cedemmo del tutto. Pur di poter rimanere nel nostro posto, accettammo una condizione. Ogni sera, quando arrivavamo in piazza Umberto, dovevamo sederci sulle panchine. Un maschio, una femmina, un maschio, una femmina.

I topini arrivavano, sempre, e il patto era questo: noi rimanevamo seduti sulla panchina, loro scendevano dai motorini e davano uno schiaffo a ogni maschio dei nostri. Se i nostri maschi si prendevano quello schiaffo in silenzio – mentre i topini insultavano e sghignazzavano in dialetto – quelli là, pieni di potere e di poteri, ci lasciavano in pace. Ci sembrò l’unico compromesso possibile, a meno che non volessimo finire accoltellati o lasciare la nostra piazza.

Una sera, dopo l’ennesimo schiaffo, la fidanzata di uno dei nostri salta di colpo su dalla panchina mentre a noi già si gela il sangue, urla “Pezzo di merda!” e si butta contro il topino. Gli strappa la camicia pagata chissà quante centomila lire.

Noi, tutti noi, in quel momento siamo morti.

Lui si guarda la camicia.

Dice qualcosa in dialetto, e in meno di un attimo i topini sono tutti decisi ad ammazzarci.

Noi veloci come solo le prede possono essere scattiamo all’unisono in piedi e cominciamo a scappare. Ma dove?

Quelli sono sui loro motorini pazzeschi. Noi a piedi. Corriamo tutti insieme, siamo dieci, siamo venti, non lo so quanti siamo, il cuore ci si spezza nel petto ma se non corriamo siamo morti.

Ci rifugiamo in un fast food affollatissimo, pieno di luce. Quelli, come in un film horror, ci aspettano fuori. Era l’epoca in cui soltanto in pochissimi avevano i cellulari. Noi non avevamo cellulari. Io chiedo al padrone del locale: “Mi fa chiamare la polizia? Ci vogliono ammazzare”. Quello dà uno sguardo in strada, oltre la vetrina – nel silenzio totale ormai creatosi in tutto il fast food – e capisce chi c’è lì fuori. Ha paura. Non si vuole mettere contro i topini. Mi dice: “Ve ne dovete andare, altrimenti chiamo io la polizia per farvi cacciare”.

Io sbraito, inveisco, ho diciotto anni e non posso accettare l’ingiustizia. Niente. Poi, si leva una voce: “Toni”, è così che mi hanno sempre chiamata da quando ero piccola. Mi giro. C’è un mio vicino di casa, un ragazzo come me, a un tavolo. “Chiama dal mio cellulare”. Io non ho il tempo di pensare, ringraziare, prendo il telefono, chiamo le forze dell’ordine, spiego o non so spiegare bene. Imploro il padrone del locale di farci rimanere altri cinque minuti. I topini come nei film horror sono sempre lì fuori, coi loro motorini, e sghignazzano. Finalmente le forze dell’ordine arrivano.

Ho dimenticato di dire una cosa. Il gruppo a cui appartenevo io era quello degli alternativi – un po’ punk, un po’ fricchettoni, un po’ bohemien, se mi si lascia passare il termine. Il gruppo a cui appartenevi si vedeva dai vestiti che avevi. E noi eravamo tutti vestiti così. Da alternativi. Ma io in quel momento non ci penso. Ho diciotto anni, perché dovrei pensare a qualcosa se non: le forze dell’ordine ci aiuteranno?

Non ricordo se fossero polizia o carabinieri. Ricordo solo che arrivano, e noi ci sentiamo salvati. E poi ricordo la faccia di uno di loro che dice:

«Chi ha fatto la chiamata?». «Io», dico, fiera. «Come ti chiami?». «Antonella Lattanzi».
 

Gli spiego cosa succede. Lui guarda fuori e li vede: i topini. I figli dei malavitosi. I figli dei più grandi malavitosi baresi.

E poi guarda me: vestita male, con un paio di tatuaggi, chissà che fa questa qua tutto il giorno. E poi guarda i miei amici. Tutti come me. E mi dice: “Lattanzi, se chiami un’altra volta per una cazzata del genere, facciamo i conti”.

E se ne va, mentre io e i miei amici piangiamo imploriamo che se ci lasciano soli siamo morti. Ma siamo soli. E il padrone del locale non ci tiene più lì.

Per cui prendiamo la corsa. Non ci diciamo niente ma siamo un unico corpo. Usciamo dal locale correndo, col cuore che batte a più non posso, il fiato che non c’è più, ci buttiamo nel sottopassaggio dove i topini non possono arrivare coi motorini, ma sappiamo che ci aspetteranno fuori, dall’altro lato, e allora prendiamo stradine laterali, come in un film, e riusciamo a guadagnare i binari, e intanto è notte, e ci lanciamo lungo i binari, al buio, perché ci dobbiamo salvare. Ci guardiamo indietro, e un nostro amico cade, ci fiondiamo a rialzarlo e corriamo. Finché troviamo il vagone di un treno parcheggiato per la notte. Ci arrampichiamo lì dentro. Rimarremo lì, nascosti, in silenzio. Se no siamo morti.

All’alba, dopo non aver mai dormito, usciamo come i topi. Vivi.

È una piccola cosa, per fortuna, un piccolo stupido aneddoto davanti a quello che stiamo vedendo in questi giorni, e che abbiamo visto. Una piccola cosa che però contiene una paura più grande: che i nostri diritti non vengano tutelati, che chi ci deve proteggere non ci protegga. Succede a dei ragazzi di diciotto anni, e cosa produrrà dentro quelle teste una vicenda del genere? In cosa si trasformerà? Cosa gli dirà del mondo?

E poi ricordo una strada di notte, qualche anno dopo. Cammino da sola. Ho fatto troppo tardi, ho perso l’ultimo autobus, i miei amici sono andati via. Ho paura. Ricordo una macchina – ancora una volta, non ricordo se fossero carabinieri o polizia – che accosta. Ricordo il sangue che mi esplode nel cervello. Ricordo il terrore. Cosa mi faranno? Una testa viene fuori dal finestrino dell’auto. Io mi fermo (del resto, cosa posso fare?).

«Buonasera», dico tremando. Quella testa ha incastonati due occhi e un sorriso e mi dice: «Tutto bene?». «Sì». «Dove vai?»”. «A casa». «È pericoloso, da sola, di notte, qui. Ti accompagniamo noi».

Ricordo che ho una paura pazzesca. Che non mi fido più. Ricordo che guardo quella faccia, e poi entro. La macchina scivola lenta sulla strada buia, sento le voci dei due che, dal sedile davanti, tentano di rinfrancarmi. Mi lasciano a casa. Ringrazio. Scendo. E sono sana e salva.

Un altro piccolo evento, quasi niente anche questo, rispetto al tutto.

Però ecco, il punto, per me, un punto che può sembrare banale, è: fate in modo che ci possiamo fidare sempre. Fate in modo che vediamo un’auto delle forze dell’ordine, una divisa e non abbiamo motivo di avere paura. Fate in modo che il lavoro dei più diventi il lavoro di tutti. Fate in modo che non sia più possibile che un ragazzo entri vivo in una caserma e ne esca morto. Fate in modo che non si torni sfigurati a vita da una manifestazione. Fate in modo che non si vada in carcere non avendo infranto la legge.

Fate in modo che succeda. Perché noi nasciamo tutti pieni di fiducia, ma a volte, ormai molte volte, abbiamo paura.

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