Il commissario europeo agli Affari economici Paolo Gentiloni ha ricordato in questi giorni che la riforma fiscale non deve aumentare il debito e deve contrastare l’evasione fiscale. Ha ragione. A giudicare dalla prima bozza di accordo, sembra sia stato ascoltato solo in parte.

L’enfasi è quasi tutta sulla riduzione delle tasse, mentre degli strumenti per rendere efficace la lotta all’evasione (necessaria a sostenere tale riduzione) si fa menzione in modo contraddittorio: da un lato si chiede di estendere l’obbligo della fatturazione elettronica e di superare gli ostacoli posti dall’attuale normativa sulla privacy, dall’altro si apre a un’ulteriore rottamazione delle cartelle esattoriali (le esperienze passate vengono addirittura considerate «positive e utili»).

Può darsi che le due cose si tengano insieme. Come del resto si tengono insieme l’ex maggioranza giallo-rossa con la Lega e Forza Italia. A occhio paiono due visioni contrapposte.

Tolto il cerchiobottismo sulla lotta all’evasione, le forze politiche hanno cominciato a trovare un accordo sulla riduzione delle tasse. Sull’Irpef, al momento nel sistema italiano vi sono cinque scaglioni di aliquote marginali, con un balzo dal 27 al 38 per cento per il terzo (fra i 28 e i 55 mila euro); scaglioni teorici, perché quelli effettivi sono completamente irrazionali.

Scelte difficili

Ora, abbattere la gobba nel centro è ragionevole e giusto. Ma sul come fare, non proprio un dettaglio, tuttora non vi è chiarezza: fra il sistema tedesco, aliquote continue progressive, che sarebbe una bella novità per l’Italia anche perché utile a contrastare l’evasione, voluto dal Pd e da Articolo 1; oppure semplicemente una riduzione dell’importo e del numero degli scaglioni, voluto dagli altri, e che sembra ora l’ipotesi più accreditata.

Sulle imprese, l’intesa è maggiore. Il riordino della tassazione per le partite Iva e le società di capitali appare positivo, dalla bozza che circola, anche se è difficile capire l’applicabilità del saldo mensile per le partite Iva, se non portando di fatto a una flat tax generalizzata. Positiva è anche la riduzione della tassazione per chi reinveste gli utili in azienda. Ma sui temi più controversi, come il riordino della tassazione patrimoniale e delle rendite (pure una questione decisiva anche per motivi di equità), siamo invece ancora in alto mare.

Forse tutto questo è inevitabile. L’errore probabilmente è a monte. Il governo Draghi è un governo di unità nazionale, come sappiamo. Questa formula può andare bene per alcune riforme di struttura, come quelle della pubblica amministrazione e della giustizia, e anzi per molti aspetti in quel caso le agevola (meglio). Ma non è così per la riforma fiscale, perché quello del fisco è da sempre il campo in cui destra e sinistra si confrontano con proposte alternative.

Si confrontano visioni diverse su che tipo di paese vogliamo essere. Difficile accontentare tutti. O meglio, lo si può anche fare, ma con il rischio di non riuscire a risolvere nessuno dei nodi che ci portiamo dietro da tempo e che pure incidono sia sulla crescita, sia sull’equità. A meno che, arrivati a questo punto, non sia proprio il governo a scegliere parole nette: sulla lotta all’evasione, sul modello Irpef, sul riordino della tassazione di patrimoni e rendite.

Accontentare tutti è stato un vizio della politica italiana sin dai tempi della Prima Repubblica. Il «compromesso senza riforme», come scrisse a suo tempo Fabrizio Barca. È per questo che siamo arrivati al punto in cui siamo. E rischiamo di restarci, se la politica non avrà il coraggio di fare scelte chiare.

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