È turbata Simone Weil dopo i due mesi scarsi passati in Catalogna tra l'agosto e il settembre del 1936. Si era arruolata volontaria nella colonna anarchica Buenaventura Durruti, aveva varcato il confine con un lasciapassare da giornalista. Nonostante la salute cagionevole fin da quando era ragazza, voleva combattere, unire il “fare” al lavoro intellettuale. Lei, filosofa, era del resto già stata operaia nelle fabbriche metallurgiche per conoscere direttamente la condizione degli sfruttati.

La guerra civile spagnola e l'impegno al fronte erano lo sbocco naturale della sua idea di come si cambia il mondo, l'ennesima scommessa con il suo corpo fragile. Risulta stonata in uniforme, con i suoi occhialini da studiosa e il portamento della parigina di buona nascita. Non sa maneggiare il fucile nonostante i goffi tentativi di padroneggiare l'arma e così viene assegnata alla cucina. Ma si ferisce maldestramente appoggiando un piede in una pentola d'olio bollente lasciata per terra.

Fine dell'avventura da miliziana, una complicata convalescenza nelle retrovie dove la raggiungono i genitori e la riportano in Francia. E inizio del suo travaglio.

L’orrore della guerra

Ciò che ha visto in prima linea non gli piace. I compagni accorsi in difesa della repubblica spagnola non si fanno scrupoli nell'ammazzare falangisti fatti prigionieri, fossero pure poco più che adolescenti. L'impatto con la realtà è un impatto con la barbarie, trasversale alle ideologie quando divampa un conflitto.

Né leniscono i suoi patimenti le discussioni accese tra i più violenti e i ragionevoli che vorrebbero il rispetto di regole cavalleresche anche in situazioni estreme. Soprattutto queste considerazioni la frenano dal tornare in Spagna una volta guarita come si era ripromessa. E il rovello non l'abbandona.

Due anni dopo s'imbatte ne I grandi cimiteri sotto la luna, di Georges Bernanos, già una star per Diario di un curato di campagna, insignito del Grand Prix du roman dall'Académie francaise. Bernanos ha compiuto il percorso opposto. Dal suo buen retiro delle Baleari aveva appoggiato il franchismo salvo poi prenderne le distanze e condannare le atrocità commesse dai falangisti in nome di Cristo.

Decide, Simone, di inviare una lettera al famoso scrittore da cui tutto la distanzia salvo quella convergenza sulla condanna degli orrori della guerra pur dalla parte opposta della barricata. Va al nucleo geopolitico del suo rifiuto di ingaggiarsi di nuovo in prima linea: «Non sentivo più alcuna necessità interiore di partecipare a una guerra che non era più, come mi era parso all'inizio, una guerra di contadini affamati contro i proprietari terrieri e un clero loro complice, ma una guerra tra la Russia, la Germania e l'Italia».

Confessa al suo interlocutore che ha «riconosciuto quell'odore di guerra civile, di sangue e di terrore che emana dal suo libro; lo avevo respirato». Snocciola i ricordi che ancora la angustiano: «C'è mancato poco che assistessi all'esecuzione di un prete; durante i minuti di attesa, mi chiedevo se avrei semplicemente assistito, o se mi sarei fatta fucilare io stessa cercando d'intervenire». L'uccisione di un ragazzo di 15 anni: «La morte di quel piccolo eroe non ha mai smesso di pesarmi sulla coscienza, benché sia venuta a saperlo soltanto dopo». E la vicenda di due preti che gli venne riferita, uno ammazzato all'istante, l'altro a cui fu permesso di andarsene, ma gli spararono appena fatti venti passi: «Chi raccontava la storia era molto stupito di non vedermi ridere».

Guerra giusta

L'essenziale, per la filosofa, è «l'atteggiamento di fronte all'omicidio. Non ho mai visto, né tra gli spagnoli né tra i francesi venuti per battersi, nessuno esprimere neanche nell'intimità, repulsione, disgusto o soltanto disapprovazione per il sangue inutilmente versato». La sua conclusione: «Quando si sa che è possibile uccidere senza rischio di castigo o biasimo, si uccide o almeno si circondano di sorrisi incoraggianti coloro che uccidono... Un clima del genere cancella subito il fine stesso della lotta... Si parte come volontari, con idee di sacrificio, e si finisce in una guerra che assomiglia a una guerra di mercenari, con molta più crudeltà e con minore senso di rispetto del nemico».

Infine la spiegazione del perché della missiva: «Lei è monarchico, discepolo di Drumont (Edouard Drumont, fondatore della lega antisemitica di Francia, strenuo accusatore di Dreyfus, ndr), che m'importa? Lei mi è incomparabilmente più vicino dei miei compagni delle milizie d'Aragona, quei compagni che peraltro amavo... Non mi resta che esprimerle la mia viva ammirazione».

La lettera è il cuore de La volontaria, di Adrien Bosc (Guanda, 32 pagine, 16 euro), un libro tanto più necessario ora che imperversa un conflitto in Europa. Una riflessione sul concetto di “guerra giusta”, anzi un interrogarsi sottinteso sul fatto se possa esistere la “guerra giusta”, avvalorato dalla condanna esplicita del proprio campo da parte di due persone che avevano abbracciato un'ideologia scontratasi con l'evidenza e la constatazione che certi impulsi degli umani sono simili, a qualunque bandiera si appartenga.

E quindi il conseguente rigetto delle giustificazioni accampate nelle situazioni estreme, il fine che giustifica i mezzi, l'inevitabilità della violenza in nome del bene superiore della causa, i delitti nobili dei “nostri” in contrapposizione dei delitti ignobili dei “loro”.

Certo un argomento difficile da dipanare se si abbandona la legge morale dentro di noi e si invoca la legge di un bene supremo. Era giusto o no, ad esempio, combattere in ogni modo, anche a costo di qualche nequizia, Hitler e il suo disegno egemonico nazista? Era giusto o no porre fine al massacro quotidiano, all'urbicidio di Sarajevo? E, restando in Spagna, era giusto o no cercare di fermare con ogni mezzo le falangi di Franco?

I comportamenti in guerra

Domande eterne. Che qui hanno una risposta chiara nella volontà di sottrarsi, di dire addio alle armi anche a costo di passare per traditori dei propri compagni, dei propri camerati. Simone Weil aveva abbandonato la comoda “retrovia” di Parigi per cimentarsi nell'agone, persuasa della superiorità morale di chi aveva sposato la causa dei derelitti della terra, dei contadini d'Aragona, salvo ricredersi e accusare chi amava.

Bernanos, che pure era fiero di un figlio, Yves, arruolato nella falange, dovette affrontare la riprovazione dei suoi. E la difesa di Albert Camus che scriverà: «È uno scrittore tradito due volte. Se gli uomini di destra lo ripudiano per avere scritto che i crimini di Franco gli spezzavano il cuore, i partiti di sinistra lo acclamano quando lui non vuole esserlo da parte loro». Il prezzo da pagare per l'onestà verso sé stessi.

Georges Bernanos non risponderà mai alla lettera di Simone Weil. Dieci anni dopo averla ricevuta morirà. La troveranno nel suo portafoglio, un grande foglio sgualcito piegato in otto parti e annerito da entrambi i lati. Si possono fare congetture sul perché l'avesse conservata in un oggetto che si porta sempre con sé. La più facile è che ne fosse rimasto così colpito da non volersene separare mai, la prova di un consenso che arrivava dal fronte opposto e la cui sincerità superava le convenienze politiche.

Quanto a Simone, lascerà ovunque tracce dei suoi pensieri ormai inscalfibili: «Essere sempre pronti a cambiare parte come la giustizia, in eterna fuga dal campo dei vincitori». E ancora: «Urterò, lo so, scandalizzerò molti miei buoni compagni. Ma quando si invoca la libertà, si deve avere il coraggio di dire quello che si pensa, anche se può dispiacere».

Non era un ripudio totale della guerra, ma dei comportamenti in guerra, se si considera un altro suo scritto poco prima del secondo conflitto mondiale: «Quando rifletto su un'eventuale guerra, il pensiero si mescola, lo confesso, insieme al terrore e all'orrore di una simile prospettiva, a qualcosa di confortante. Una guerra europea potrebbe dare l'avvio alla grande rivendicazione dei popoli coloniali, come punizione della nostra noncuranza, della nostra indifferenza e della nostra crudeltà».

Figlia di genitori ebrei ma agnostici, fuggirà con loro in America per le persecuzioni razziali. Il suo intento era da lì raggiungere Londra e unirsi alla resistenza. Cosa che fece. Non le bastava stare al tavolo una scrivania, voleva essere paracadutata in Francia oltre le linee nemiche per missioni ad alto rischio ma non glielo permisero. La retrovia le stava sempre stretta. Si ammalò di tubercolosi e morì nel 1943. Albert Camus, nel 1957, nel discorso di accettazione del premio Nobel per la letteratura, dopo aver menzionato gli autori viventi a lui più cari, aggiungerà: «...E anche Simone Weil, a volte i morti sono più vicini a noi dei vivi». Per lui l'opera della filosofa è un antidoto al nichilismo.

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