Nel suo ultimo libro, Istituzione (Mulino 2020), Roberto Esposito spiega il misto di necessità e contingenza alla radice delle istituzioni, che hanno una funzione vitale ed esprimono una potenza istituente. Secondo i giuristi esse sono le fonti primarie del diritto, insieme alla consuetudine e alla legge scritta, grappoli di norme che danno ordine alle relazioni tra le persone e in questo modo aprono uno spazio alla creatività.

La loro natura bifronte, tra necessità e contingenza, emerge soprattutto nelle situazioni di emergenza, come la pandemia contro la quale stiamo ancora resistendo: «Se il virus non ha travolto tutti gli argini, dilagando indisturbato, si deve essenzialmente ad esse».

La pandemia ci ha mostrato molto bene questa loro realtà doppia. Delle esigenze ispettive associate alla salute pubblica ci siamo lamentati come di ostacoli imposti alla nostra libertà, addirittura come forme autoritarie che mettevano la pura sopravvivenza prima e sopra tutto. Di esse abbiamo, nel frattempo, sperimentato il bisogno irrinunciabile per contenere l’epidemia e per supplire infine alla nostra individuale impotenza.

Questo anno di pandemia ci ha fatto capire che la vita è più complicata della “nuda vita”. «Nessuna vita umana è riducibile a pura sopravvivenza o a pura vita biologica - scrive Esposito –  essa è fatta di un reticolo di relazioni che coinvolgono l’intera dimensione umana, affettiva e intellettiva. La difesa della vita è difesa della “prima” e, “dopo” di essa, della “seconda” vita, “quella istituita e capace di istituire”.

Per restare in vita, «non possiamo rinunciare alla vita con gli altri». E questa condizione registra la natura ad un tempo di continuità e di mutamento delle processo istituente. Registra anche la contraddizione che fa vivere tale processo.

Non a caso, le istituzioni sono invariabilmente criticate o per eccesso o per difetto: ora di comprimere la creatività individuale e associativa, ora di non essere abbastanza efficaci nel rispendere ai bisogni sociali.

Da Foucault a Basaglia

Department of Anaesthesiology and Resuscitation at the Regional Hospital Liberec, where healthcare professionals treat patients with COVID-19 disease, in Liberec, Czech Republic, on March 9, 2021. Photo/Radek Petrasek (CTK via AP Images)

Nel pensiero filosofico radicale degli anni Settanta, l’istituzionalizzazione è stata contrapposta allo spontaneismo dei movimenti, e le istituzioni concepite e contestate come chiuse e oppressive, e soprattutto irriformabili. Il caso degli ospedali psichiatrici e l’identificazione della salute pubblica con la pena e la punizione sono stati i temi portanti della riflessione genealogica di Michel Foucault, il quale ha applicato alla istituzione la logica della totalità. 

La strada che percorre Esposito è un’altra, ispirata a Franco Basaglia, il quale ha circoscritto la valenza oppressiva ad alcune istituzioni (manicomiali) e non a tutte (e su questa base non totalizzante ha motivato e scritto la legge sulla chiusura dei manicomi).

In effetti dal dualismo istituzioni/movimenti, istituzioni/spontaneità si è sprigionata una riposta radicale, sia nel senso della disattivazione della logica istituente – per esempio con il “ritiro” dell’individuo nella dimensione esistenziale e privata – oppure con l’esaltazione degli “istinti animali” della dottrina economica neoliberale, celebrazione della richiesta di immediatezza, del rischio della scelta individuale senza reti protettive.

La strada che percorre Esposito prende invece avvio dall’ontologia della contingenza di Machiavelli: alla base della società vi è un fondamento divisivo, non un principio unitario di armonia.

La libera articolazione dei conflitti è la potenza che istituisce lo spazio nel quale quei conflitti possono esprimersi senza distruggere il tessuto civile. L’istituzione non è dunque opposta a movimento o libertà, ma è ciò che tiene insieme interessi contrapposti: questo fanno le istituzioni civili, politiche, religiose, militari. Unificare attraverso la divisione; produrre ordine senza scivolare nè in un autoritarismo che comprime il disseno nè in un antagonsimo che destabilizza.

Le istituzioni sono capaci di rigenerarsi e sembrano dotate di vita propria, tanto che spesso ci dimentichiamo del processo, delle ragioni e dei conflitti che le hanno fatte venire al mondo.

Eppure, le società contemporanee hanno misurato i loro successi e i loro fallimenti in ragione della capacità di istituire ordini politici e giuridici capaci di governare il conflitto lasciandolo esprimere. In questa cornice si possono analizzare le trasformazioni dello Stato sociale, forse il manufatto social-giuridico più imponente della storia politica contemporanea.

Lo stato sociale

Nella progettualità legal-politica che ha accompagnato la costruzione dello stato sociale si sono permanentemente misurate le tensioni tra istituzionalizzazione e deistituzionalizzazione, tra mito autoritario e mito robinsoniano.

Nella Soria dello Stato sociale in Italia (il Mulino 2021), Chiara Giorgi e Ilaria Pavan ci offrono una imponente ricostruzione delle trasformazioni della risposta pubblica ai bisogni sociali, a partire dal Primo conflitto mondiale fino alla fine del Ventesimo secolo. La storia della istituzionalizzazione della protezione sociale è intersecata con quella dei conflitti sociali e dei regimi politici.

Il collasso dello stato liberale, nel 1922, avviene in un momento cruciale della costruzione delle istituzioni pubbliche di previdenza, di assicurazione per la malattia e per la disoccupazione. Le idee liberali e socialiste si scontrarono proprio sull’estensione della istituzionalizzazione e, quindi, sulla concezione dell’inclusione sociale dei cittadini.

 L’esperienza massificante della guerra si tradusse nell’intervento sociale dello Stato in tempo di pace: un’azione centralizzata e organizzativa capace di incutere nei liberali la paura del “socialismo di Stato” e dell’espansione della burocrazia; che, infine, animò nelle classi sociali dominanti (soprattutto agrarie) il timore che lo Stato creasse una “popolazione assistita” o che, assicurando condizioni di vita decenti ai braccianti e ai contadini poveri, imponesse vincoli al profitto degli agrari, obbligandoli a partecipare alla tutela dei lavoratori e quindi ad accettare una politica fiscale redistributiva.

La nascita del movimento fascista avvenne in quel frangente, negli anni in cui il piano dei provvedimenti per le politiche sociali e assicurative veniva discusso e in parte approvato dai deboli governi liberali, con la «reazione veemente degli agrari». 

Il sociale è politico

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La transizione da un regime sociale ad un altro si incontra con la storia dei regimi politici e della loro interna evoluzione (o involuzione) in senso più o meno privatistico o sociale. 

Nei capitoli conclusivi della loro ricerca, Giorgi e Pavan ricostruiscono la transizione dal più organico progetto di istituzionalizzazione dei servizi sociali negli anni Settanta (con la creazione del sistema sanitario nazionale e le politiche di sostegno alla casa e al lavoro e di democratizzazione degli enti previdenziali) a quello che a partire dagli anni Novanta, anche in concomitanza con le regole di Maastricht, si è materializzato come un processo di interruzione dello Stato sociale, di limitazione della spesa pubblica, e di quella sanitaria in particolare che da allora comincia ad allontanarsi dai livelli di funzionalità dei maggiori paesi europei.

Di quel progressivo impoverimento abbiamo subito le conseguenze in questo anno di pandemia, quando la nostra libertà di movimento si è mostrata in relazione direttamente proporzionale al numero dei posti letto in terapia intensiva e alla capacità diagnostica dei presidi sanitari territoriali.

In età repubblicana, più che la de-istituzionalizzazione è stata la frammentazione regionalistica della struttura dello Stato sociale, visibile in modo particolare nella sanità, a segnare la più importante trasformazione. Questo, insieme all’aumento degli spazi per le logiche di mercato e privatistiche, con l’apertura di un campo di profitto per le assicurazione private non di poco conto. 

Come ricostruire una connessione tra istituzioni e vita superando le due tensioni che Esposito analizza nel suo libro, quella tra soluzione autoritaria (che diventa estrema quando lo Stato comprime diversità e conflitto) e soluzione neoliberale (con la richiesta di sfoltimento della mediazione istituzionale nel nome di una espansione senza limiti della potenza individuale).

Nel primo caso, l’istituzionalizzazione persegue il mito dell’unità armoniosa, nel secondo che è ad esso speculare, la deistituzionalizzazione insegue il mito della vittoria dei forti nella lotta darwiniana per la vita.

Come se la libertà individuale fosse puro movimento spontaneo di energia vitale e non, invece, una condizione sostenuta da istituzioni che la facilitano artificialmente, con scelte fiscali e politiche di ampliamento o restrizione dello stato sociale.

A volte si cambia idea

La resistenza dei liberali del primo dopoguerra ai provvedimenti relativi alle assicurazioni pubbliche sulla salute e la disoccupazione naufragò di fronte alle epidemie di tifo, di malaria e di influenza spagnola che, tra il 1918 e il 1919 causò circa 470.000 morti, «una spaventosa falcidia, paragonabile a quella compiuta dalle armi in campo di battaglia», scrivono Giorgi e Pavan.

E fu in seguito all’instancabile attività del parlamento e al lavoro ideologico e politico dei socialisti e dei liberali sociali se malattia, infortuni e maternità confluirono in un unico schema assicurativo gestito da un ente centrale, una scelta tra le più coraggiose e radicali in Europa che il fascismo fermò e trasformò con esiti meno efficaci e più clientelari.

Nel parlamento liberale, la istituzionalizzazione delle forme di cura e di assistenza era chiaramente avvertita dai protagonisti come una svolta in senso democratico.

La riformulazione del diritto all’assistenza, si legge nel testo della Commissione parlamentare del 1919 presieduta da Mario Abbiate, risponde alla «tendenza democratica», un processo non repentino grazie al quale «la beneficenza» deve «far posto all’assistenza»: «Quando noi saremo giunti ad abolire tutto ciò che è beneficenza e a trasformarlo tutto in una forma di previdenza, noi non solo avremo fatto una politica di elevazione umana, ma avremo fatto anche una grande opera di educazione e di disciplina sociale».

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