Un’assemblea generale così triste non c’era mai stata. Nella assemblea generale dell’Onu 2020 tutto è avvenuto on line; le sale e i corridoi del palazzo di vetro sono rimasti vuoti e silenziosi. Niente più incontri né scontri, né accordi sottobanco o strette di mano inconsuete: se c’è una cosa che importava a New York era ritrovarsi ogni anno “in presenza”. Ma il Covid19 l’ha impedito.

Per la stragrande maggioranza dei paesi l’Onu è l’unico vero spazio in cui incontrare i potenti, i paesi che contano, quelli che dettano la linea. Le potenze e i paesi ricchi (una cinquantina) hanno tante altre riunioni internazionali, anche troppe: G7, G20, Fmi, Banca Mondiale, Ue, organizzazioni regionali ecc. Ma gran parte dei 193 paesi del mondo non sono quasi mai protagonisti. All’Onu tutti devono essere presenti, tutti hanno il loro spazio e in termini di tempi di parola e di voto in assemblea “uno vale uno” davvero.

Ma quest’anno nessuno è venuto a New York. Davanti all’emergenza Coronavirius il multilateralismo ha subito una botta di arresto proprio quando sembrava essere indispensabile. Gli Stati hanno preferito andare in ordine sparso senza la necessaria solidarietà. Per mesi non è stato possibile avere una risoluzione del consiglio di sicurezza sul Covid perché Cina e Usa stavano polemizzando sulle rispettive responsabilità. L’organo principale delle Nazioni Unite era immobilizzato.

Rapporti di forza

Molti leader, a iniziare dal presidente Trump, sono accesi unilateralisti anche se si appellano all’Onu quando pare loro opportuno. Gli Stati Uniti sono usciti dagli accordi di Parigi sul clima e sul nucleare iraniano o da quello con Mosca sulle armi nucleari a medio raggio. La Cina cerca di riempire i vuoti lasciati da Washington ed è a capo di quattro agenzie dell’Onu (aviazione civile; FAO-agricoltura; telecomunicazioni e sviluppo industriale). Pechino è anche divenuta la principale fornitrice di caschi blu per le operazioni di peacekeeping ma nessuno crede che tutto ciò sia per favorire il multilateralismo. I cinesi non prendono mai impegni che possano limitarne la capacità strategica. 

Il pianeta è sempre più multipolare e multidimensionale ma non è più multilaterale: perché vi sia un multilateralismo funzionante occorre essere d’accordo almeno su un certo numero di principi.

Diritto alla guerra

Negli ultimi vent’anni tutto si è svolto come se il consenso di non scatenare guerre in prima persona (o di non alimentarne) mantenuto fino alla fine della guerra fredda, fosse definitivamente tramontato.

All’epoca dei due blocchi c’erano state frizioni, tensioni e anche guerre ma mai occupazioni permanenti né cambi di frontiere o annessioni in così gran numero e con così poca giustificazione. A un certo punto la Russia (uno dei cinque paesi con diritto di veto e che decidono al consiglio di sicurezza) si è sentita le mani libere per fare le guerre che considerava indispensabili, come si è visto in Georgia, Moldavia, Ucraina o Crimea.

Tale scelta ha fatto molti imitatori, tra cui Ankara. Mosca può sempre eccepire che a rompere il consenso era stato l’Occidente con la soluzione della crisi Jugoslava e la creazione di nuovi Stati, in particolare il Kosovo. Anche l’espansione della Nato era parsa a Mosca come una subdola forma di accerchiamento. 

Oggi Pechino riproduce lo stesso schema nel Mar della Cina meridionale e in Asia, in nome della propria sicurezza. Anche tra India e Pakistan o tra India e Cina si sono riaccese violente dispute territoriali che sembravano tramontate. La Corea del nord minaccia ritorsioni nucleari in nome della stessa politica di sicurezza nazionale.

Si contrappongono due visioni opposte di multilateralismo: quella occidentale basata sui valori della carta delle Nazioni Unite fondati sui diritti dell’uomo; quella cinese e di altri paesi per i quali il bene comune risiede nell’interesse nazionale e il diritto internazionale serve solo a garantire la sovranità degli Stati (e nemmeno sempre).

Speranze deluse

La fine della guerra fredda era iniziata con un movimento di speranza e con la nascita di molte nuove organizzazioni internazionali o regionali. Si pensava che la fine dei veti incrociati Usa-Urss avrebbe portato il multilateralismo ad occuparsi di ogni problema per risolverlo insieme. Tra gli anni Novanta e il 2000 le conferenze internazionali dell’Onu si erano moltiplicate quasi a costruire un comune linguaggio multilaterale. Tale slancio non è durato e ha lasciato il posto a nuove forme di nazionalismo bellicoso.

Anche l’Oms, organizzazione che si occupa della sanità mondiale, non ha facilità ad intervenire in una pandemia come quella del Covid. Eppure le lezioni ricavate dalle precedenti crisi di ebola, Sars e influenza aviaria sarebbero a tutti molto utili.

La società civile internazionale  cerca di farsi ascoltare in tale difficile contesto, introducendo il concetto di “sicurezza umana” da affiancare a quella degli Stati. La contrapposizione tra Stati nazionali e società civile organizzata si è accesa in maniera eclatante nel mare a sud di Lampedusa, con la sfida tra navi militari, interessi nazionali e imbarcazioni delle Ong che continuano a rivendicare il loro diritto a “proteggere” qualunque vita umana. Le polemiche sono numerose, eppure le Ong stanno difendendo l’ultimo pezzo di multilateralismo ancora oggi operante. Un domani ciò andrà a vantaggio degli stessi Stati che oggi le contrastano.

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