La discussione che si è accesa in questi giorni sulla legge di bilancio mostra le difficoltà di uscire dalla “veduta corta” schiacciata sulla congiuntura e di concepire e portare avanti una strategia di lungo periodo, con scelte coerenti di politica industriale e di investimento in beni strategici.

La costruzione del Pnrr avrebbe potuto sollecitare la messa a fuoco di una “visione del futuro”, ma non è avvenuto. Rischiamo così di arrivare impreparati alle sfide poste dal cambiamento dei processi di globalizzazione che aprono opportunità nuove e potenzialmente favorevoli per l’Italia.

La globalizzazione aveva già rallentato prima della pandemia, per effetto della guerra dei dazi. Il Covid 19 ha poi mostrato come la frammentazione del processo produttivo in lunghe e complesse catene di fornitura, con produttori di singole componenti collocati in paesi diversi, creasse pericolose dipendenze e colli di bottiglia per i paesi più avanzati.

Non c’è dunque da valutare solo le convenienze di costo, ma anche l’affidabilità delle reti produttive transnazionali, sia in relazione a eventi naturali come la pandemia, che a dinamiche politiche. Così come è da contrastare la dipendenza da singoli paesi fornitori di energia e materie prime.

L’aggressione russa all’Ucraina ha reso ancora più visibili i rischi della dipendenza e ha spinto verso una “de-globalizzazione selettiva” della cui inevitabilità sembrano ormai convinte le élite economiche occidentali. Crescono dunque i posti di lavoro “riportati” all’interno (reshoring). Negli Usa sono stimati in circa un milione.

La ripresa delle attività manifatturiere sarà anche alimentata dagli ingenti stanziamenti di fondi pubblici, soprattutto degli Usa ma anche della Ue, per la transizione ecologica. In ogni caso la Cina - di cui sono già evidenti le difficoltà – vedrà ridimensionato il suo ruolo di “fabbrica del mondo”. In questo quadro, l’interscambio commerciale e l’organizzazione delle reti di subfornitura tenderanno a spostarsi maggiormente all’interno di blocchi economico-politici omogenei (friendshoring): quello occidentale (Usa ed Europa più il Giappone) e quello russo-cinese. Più incerto ma sempre più rilevante il ruolo dell’India.

Perché questi profondi cambiamenti creano opportunità per l’Italia? Anzitutto, perché il paese potrebbe godere delle nuove possibilità di esportazione che si aprono, avendo una struttura produttiva già orientata alle vendite all’estero e specializzata in più settori (non c’è solo il tradizionale made in Italy, ma anche altri settori di punta, come per esempio la costruzione di macchine).

Inoltre, l’Italia potrebbe offrire l’affidabilità - ora più richiesta rispetto al mero contenimento dei costi - nella riorganizzazione delle reti produttive dei paesi occidentali, non solo per la sua collocazione politica internazionale, ma anche per le competenze di cui dispone e per l’esperienza acquisita nella costruzione di reti di imprese.

Non è facile infatti per paesi che hanno smantellato le loro strutture produttive in certi settori ricostituire le competenze necessarie. A tutto ciò è da aggiungere un fattore certo non secondario: il più basso costo del lavoro rispetto a altri grandi paesi occidentali. Una risorsa importante nell’immediato, che potrebbe però aiutare a far crescere nel tempo i redditi da lavoro.

La de-globalizzazione offre dunque opportunità per l’Italia. Per coglierle al meglio è però necessaria una consapevolezza, una visione il più possibile condivisa dalle forze politiche e sociali e una strategia coerente per il futuro.

 

© Riproduzione riservata