In Europa la pandemia e le sue conseguenze hanno rotto molti tabù.

Com’è noto, il primo è stato quello della mutualizzazione del debito mediante il Next generation Ue. L’Italia era da tempo particolarmente interessata a tale innovazione e aveva lanciato anni or sono (con Giulio Tremonti) l’idea degli Eurobond.

La furia dei paesi frugali li aveva contrastati ma il Covid ha rimescolato tutte le carte. Ora la questione è se tale apertura sarà mantenuta.

Numerosi osservatori considerano che il Trattato del Quirinale, che sarà firmato il 25 novembre, sia un passo tra Roma e Parigi volto a creare un asse in questa direzione. Il nuovo governo tedesco sarà più debole del precedente e non è ancora chiaro quanto ciò potrà avvantaggiare o fiaccare tale prospettiva.

Visegrad meno compatto

L’altro argine che si sta rompendo è la coesione tra i partecipanti del gruppo di Visegrád. Com’è noto si tratta dei quattro paesi più euroscettici (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), contrari alla comunitarizzazione delle politiche europee. Forse le cose stanno cambiando.

Innanzitutto la designazione del nuovo premier ceco, Piotr Fiala, mette in campo a Praga una maggioranza di destra filoeuropeista. La Repubblica Ceca si prepara così ad essere meno solidale con le politiche di Viktor Orbán e dei polacchi, seguendo le orme della Slovacchia che già l’anno scorso ha cambiato maggioranza in senso europeista e ha preso varie volte le distanze dalle scelte del primo ministro ungherese.

Ed ora sarà sostenuta anche da Praga tanto che gli esperti iniziano a parlare non di V4 (definizione giornalistica del gruppo di Visegrád) ma di V2+V2. Il processo di fuoriuscita dal caos populista e illiberale (per usare le parole di Orbán) è comunque lungo e complesso.

I sovranisti hanno perso il potere ma non si danno per vinti e tentano ogni possibile via per destabilizzare le nuove maggioranze, mediante campagne social in stile trumpiano e cercando di bloccare i governi usando tribunali e l’alta amministrazione dove la dirigenza è ancora quella di loro nomina.

Il caso ungherese

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Tuttavia anche in Ungheria sta accadendo qualcosa di nuovo in vista delle elezioni del 2022: le primarie inclusive dell’opposizione che si scontrerà unita contro il premier, hanno designato come leader il conservatore filo-europeo e fervente cattolico Péter Márki-Zay.

Quest’ultimo è riuscito a convincere gli elettori di opposizione che il suo era il miglior profilo possibile per avere una chance contro Orbán. Così ha battuto i vari candidati di sinistra e appena designato si è precipitato a Bruxelles dove è stato accolto con tutti gli onori dalla Commissione. Certo la sfida di Márki-Zay sembra quasi impossibile ma gli esempi ceco e slovacco possono lasciare aperta una possibilità.

Tale rimescolamento nel panorama politico di Visegrád spiega perché la Commissione ha rallentato il processo sanzionatorio nei confronti dei sovranisti, sperando in una ricomposizione delle molteplici fratture con Bruxelles. L’ultimo caso è la solidarietà offerta ai polacchi nei confronti della crisi con la Bielorussia.

Se le polemiche contro il fatto che la Polonia potrebbe utilizzare soldi europei per costruire il suo muro anti migranti hanno messo in crisi la presidente Ursula von der Leyen, il sostegno contro le provocazioni di Aleksandr Lukashenko è totale. L’Europa non vuole divenire ostaggio dei regimi autoritari che usano contro l’Ue i diritti che negano in patria.

Ciò spiega perché le immagini dei poveri rifugiati (per lo più afghani) in cerca di asilo immersi nel ghiaccio delle foreste e respinti da tutti, non commuovono l’opinione pubblica come invece avvenne per quelli accalcati al muro dell’aeroporto di Kabul. Stretta fra tali contraddizione l’Europa non ha ancora trovato la risposta adeguata che salvi i principi su cui si è costruita senza negare protezione a chi ne ha diritto.

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