Sembra un principio di etica “pubblica” nel nostro paese il dire quel che si pensa, non necessariamente il pensare a quel che si dice prima di dirlo. L’elogio del non nascondimento è folcloristico e poco o nulla ha a che fare con la sincerità; molto ha invece a che fare con il desiderio di generare dispute ed essere onnipresenti nell’audience.

Al centro di questo straordinario amore per la trasparenza nel linguaggio pubblico è in questi giorni la questione della violenza sulle donne, che a molti uomini infastidisce perché metterebbe l’accento solo su uno dei due attori, l’uomo appunto, imputandogli una responsabilità totale. A volte i titolisti dei quotidiani, quando devono portare la notizia di una donna uccisa da un congiunto si sbizzarriscono nello scavo della personalità del carnefice nel tentativo di essere equi nel distribuire responsabilità.

Ricorrente è anche l’opinione che vuole che le donne (non gli uomini) non possano essere libere di fare e vestire e andare senza tener in conto della probabile reazione animalesca degli uomini. In effetti, questa massima ha un fondo di verità in società primitive nelle quali la libertà di fare, vestire e andare è distribuita secondo i generi, assumendo che una è la preda e l’altro il cacciatore. Questo è il tipo di società “civile” abitata dagli amanti del dire quel che pensano e del dar sfogo a quel che sentono.  La questione non è solo di “misoginia” o di “omofobia” o di altre manifestazioni di insopportabilità per gli stili di vita che non si condividono. La questione riguarda il tenore della vita civile di un paese.    

La responsabilità del parlare in pubblico

La società civile non potrebbe esistere se le persone dicessero sempre e dovunque quel che pensano ed esternassero le loro emozioni senza veli. L’uso del linguaggio è un lavoro di cesello. Lo è soprattutto quando si esce di casa (ma dovrebbe esserlo anche in casa) perché le parole possono fare altrettanto male delle pietre.  Anzi, più delle pietre, perché con una pietra si colpisce un bersaglio specifico mentre con le parole estendiamo il nostro raggio di influenza su molti.

Il parlare in pubblico ha la capacità (e chi lo usa ne è ben consapevole) di generare onde identificative che fanno opinione.  Dietro il linguaggio di Vittorio Feltri, per esempio, a volte scurrile e spesso offensivo per persone simili a me, le donne, vi è un’intenzione neppure troppo velata di raccogliere consensi e rappresentare gli umori di molti uomini.  

Parte dell’opinione pubblica competente di questo paese è convinta che l’ipocrisia sia un vizio capitale (nonostante la pratica della doppiezza succhiata col latte cattolico) e non si cura del fatto che sulla distanza tra pensiero e parola sta molta della “civilità” della società civile. La quale per essere l’insieme degli stili di vita, visioni, opinioni, interessi i più diversi educa le persone a gestire l’ “io penso” tenendo conto che non abitano in un’isola deserta come Robinson Crosue.

Se vogliamo che la nostra vita sociale non sia faticosa, non dobbiamo usare le parole come fossero pistole e nemmeno pensare che i sentimenti siano degli istinti naturali, ineducabili e diretti. L’uso del linguaggio è una componente dell’educazione che ci viene impartita da bambini, quando ci insegnano a pensare prima di parlare; crescendo dovremmo comportarci così senza tanta fatica: questo è il segno della nostra uscita dall’infanzia. I difensori nostrani della sincerità pubblica dei pensieri privati contestano questa regola del vivere civile.

La chiamano con disprezzo “politically correctness” identificando questo bacchettonismo con la regola aurea della “civility”. Gli eroi della sincerità sembrano non avvedersi che con la loro massima non ci sarebbero nè campagne elettorali, nè pubblica opinione e stampa, nè infine vita politica e pubblica; e loro stessi avrebbero seri problemi di sopravvivenza se tutti e tutte usassero le parole come un’arma contundente.

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