L’idea di Donald Trump di «prendere il controllo» della Striscia di Gaza espellendone gli abitanti è ovviamente contro il diritto internazionale. Ma è anche contro il parere degli stati arabi. L’Arabia Saudita ha fatto subito sapere la sua contrarietà mediante un’insistenza reiterata sulla politica dei due stati.

Molti altri paesi hanno fatto lo stesso. Né Egitto né Giordania vogliono e vorranno mai accogliere i palestinesi di Gaza e – questo è certo - continueranno ad opporsi strenuamente.

Trump ha fatto le sue controverse dichiarazioni durante la conferenza stampa con Benjamin Netanyahu il quale, com’è noto, è invece favorevole all’espulsione generalizzata da Gaza. Tutti si chiedono perché Trump abbia optato per una soluzione così drastica e all’apparenza irrealizzabile, salvo mettersi contro tutti e operare una violazione del diritto che potrebbe ritorcersi contro gli Stati Uniti e provocare maggior caos.

I più attenti osservatori di cose trumpiane consigliano di prendere il presidente americano «sul serio ma non alla lettera». Certamente il tycoon ha voluto fare piacere al suo amico israeliano: un modo per rinsaldare l’alleanza tra lo stato ebraico e l’amministrazione Usa e per dire al mondo che non si illuda su un possibile ribaltamento. Contemporaneamente Trump mette alla prova i suoi alleati dal momento che a cacciare eventualmente i palestinesi dalla loro terra sarebbero gli israeliani stessi, non certo truppe Usa che il Congresso negherebbe.

A voler essere maligni, a Washington ci si aspetta che Israele fallisca in tale disegno, quindi spazio al piano B. Il presidente ha anche detto che gli Accordi di Abramo proseguiranno. In questa partita entrano in gioco i sauditi, l’altro grande amico di Donald, ai quali nel mandato precedente dedicò la sua prima visita internazionale.

Tutto dipende da come Riad reagirà alle proposte su Gaza. Anche sul «prendere il controllo» della Striscia c’è un margine di ambiguità: i primi a proporlo furono proprio i sauditi alcuni mesi fa e con le medesime immagini usate da Trump: farne una specie di Dubai, si disse. Nessuna menzione fu invece fatta sul destino della popolazione.

C’è da chiedersi dunque a chi davvero andrebbe il controllo di Gaza e se si possa ricostruire un oceano di macerie senza spostare (almeno in parte) la popolazione. I piani di ricostruzione in corso di preparazione sono già disponibili e tengono conto della permanenza dei gazawi sul posto. Fatto salvo l’aspetto tecnico, c’è soprattutto da domandarsi se la ricostruzione di Gaza sia “scambiabile” con lo stato palestinese. Il governo israeliano potrebbe avere una cattiva sorpresa: sì al piano di ricostruzione ma in cambio della nascita dello stato palestinese.

Tutto il resto sarebbe un dettaglio. È precisamente ciò che Trump si aspetta come decisione da parte di Mohammed Bin Salman. Quest’ultimo, pur felice di partecipare alla ricostruzione di Gaza, sarà in grado di abbandonare gli abitanti strappando in cambio un vero stato palestinese? E come fare lo stato in Cisgiordania posta sotto la permanente aggressione dei coloni? Paradossalmente sarebbe più facile immaginarlo a Gaza.

Se in Ucraina Trump sta negoziando con Putin “pace contro territori”, in Medio Oriente negozierebbe “pace in cambio di spostamento della popolazione + stato”. Per quanto riguarda un’eventuale violazione del diritto internazionale, dall’amministrazione americana si fa notare che nella guerra dei Balcani degli anni ’90 la popolazione fu de facto in parte spostata e in pochi se ne lamentarono alla fin fine.

Per comprendere ciò che Trump ha in testa dobbiamo dunque immaginare quali possano essere gli scambi in un negoziato molto duro con almeno quattro protagonisti: israeliani, palestinesi (ma quali?), sauditi (e altri arabi al seguiti) e americani (europei alla finestra, per ora). Quello che tuttavia Trump non ha messo in conto è la resilienza palestinese.

Questi mesi di guerra a Gaza dovrebbero illuminare tutti sul fatto che i gazawi non si lasceranno mai spostare a costo di farsi ammazzare sul posto. Pensare altro significa non conoscerli. Lo sanno bene gli israeliani che dovrebbero uscire dall’abbaglio e tornare coi piedi per terra. Trump ha detto che «certamente amerebbero vivere in un luogo migliore». Forse questo vale per altri ma non per loro: sono ormai convinti che l’unico alleato che hanno è la loro forza di volontà e l’unica terra per loro sia quella dove restano disperatamente ancorati.

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