I Cinque stelle si agitano scompostamente alla ricerca di un centro di gravità. Meloni continua a incassare dividendi dal suo dir nulla, salvo ripetere quello che il suo mentore, Giorgio Almirante, ripeteva a piè sospinto: nuove elezioni.

La Lega non manca di far risuonare le suo invettive antiliberali e populiste sostenendo le corporazioni dei tassisti e dei balneari senza dimenticare drogati da incarcerare e migranti da ributtare a mare. Forza Italia resuscita addirittura Berlusconi dalla criosfera che straparla di futuri successi e di responsabilità istituzionale (sic). In questo turbinio di proclami si perde il sussurro che si leva a sinistra.

Il Pd, coerentemente con il suo marchio d’origine, continua a predicare prudenza e misura. Rimane, ricordando una celebre immagine satirica, fermo e immobile nella sua postura di partito serio, affidabile e governativo. Senza ritornare a Pier Luigi Bersani e alla sua sofferta e benemerita decisione di appoggiare il governo Monti nel novembre 2011 quando l’Italia rischiava il default per i disastri finanziari del governo Berlusconi, anche Nicola Zingaretti, nel settembre 2019, per salvare il paese dal populismo antieuropeo dei Salvini e dei Meloni, invece di andare alle elezioni, ha ingoiato l’alleanza con il capo politico pentastellato Di Maio che, fino al giorno prima, accusava il Pd di ogni turpitudine sui bambini di Bibbiano (e a questo proposito si attendono ancora le scuse del ministro degli Esteri).

Poi ha fatto il bis con il governo Draghi, al costo di farsi saltare i nervi tanto da lasciare la segreteria. Con l’arrivo alla guida del partito di monsieur Letta, il Pd non ha modificato di un’oncia la sua propensione filo-governativa. Anzi. La nuova segreteria si è subito caratterizzata come la più draghiana di tutta l’armata Brancaleone che appoggia l’esecutivo. Senza la pazienza e la naturale attitudine mediatoria di Enrico Letta, a palazzo Chigi da tempo non siederebbe più Mario Draghi.

Il Pd ha fatto buon viso a cattivo gioco su infiniti provvedimenti soprattutto sul piano economico-sociale, ha fatto da pontiere con le intemperanze pentastellate, ha fatto finta di nulla di fronte ai rinvii e agli ostruzionismi sulle sue proposte civili (ddl Zan, ius scholae, depenalizzazione cannabis).

Il governo Draghi è stato il governo in cui il Pd alla fine si è identificato in tutto e per tutto, e al quale si è immolato. Non per nulla il partito rimane inchiodato, a credere ai sondaggi, a una misera percentuale del 20 per cento, quando invece a livello locale vola alto. Come nel passato, ben pochi rendono e renderanno merito alla fedeltà draghiana del partito. Serve piuttosto un qualche scarto o alzata di testa per marcare un punto nell’agenda governativa e intitolarsi chiaramente il merito di provvedimenti simbolo: nell’arena elettorale va portato un trofeo per essere visibili e premiati.

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