Il caso ha voluto che a reggere le sorti del governo ecclesiastico e statale in questo momento cruciale per la lotta alla pandemia in Italia siano due esponenti della cultura gesuitica: Jorge Mario Bergoglio direttamente, per ordinazione, e Mario Draghi indirettamente, per formazione. Il loro comportamento pubblico si adegua infatti perfettamente alla caratteristica principale dei gesuiti, che consiste nell’essere campioni di un equilibrismo verbale che permette loro di parlare senza che si capisca cosa vogliono dire veramente, e spesso neppure se vogliano veramente dire qualcosa: dalle affermazioni sui gay di Bergoglio, a quelle sui dittatori di Draghi. D’altronde, il motto dei gesuiti è il duplice «dire la verità mentendo e mentire dicendo la verità», che in un colpo solo traduce l’ambiguità della forma e tradisce l’ambiguità del contenuto. Naturalmente, questo motto è l’esatto contrario del precetto evangelico enunciato dal Vangelo secondo Matteo: «Sia il vostro parlare sì, sì, no, no. Il di più viene dal Maligno». Essendo invece il maligno parlare dei gesuiti “sì, no, sì, no”, non stupisce che coloro che prendono le parole del fondatore alla lettera finiscano per seccarsi.

Giansenisti

Pascal, ad esempio, i gesuiti non li poteva sopportare, per due ovvi motivi. Da un lato, era un matematico, abituato a enunciare chiaramente e a dimostrare logicamente i propri teoremi. Dall’altro lato, era un giansenista, abituato a prendere seriamente le Scritture, invece di interpretarle furbescamente. Non a caso, nel Seicento la polemica fra giansenisti e gesuiti fu uno dei campi di battaglia su cui si giocarono le sorti della fede e della Chiesa. In particolare, i giansenisti accusavano i gesuiti di predicare un lassismo morale tipico dei paesi mediterranei, che noi italiani abbiamo psicologicamente introiettato. L’idea dei gesuiti era infatti di strizzare l’occhio ai fedeli dicendo loro che potevano benissimo peccare, visto che intanto essi li avrebbero poi facilmente assolti. I protestanti, in generale, e i giansenisti, in particolare, pensavano invece seriamente che il peccato costituisse una grave offesa fatta a Dio, e che non si potesse affatto prendere sotto gamba la confessione. Estendendo la disputa dalla legge divina e morale a quella statale e legale, si capisce dunque perché in Europa i paesi settentrionali e protestanti diano un’impressione di teutonica serietà e operosità, e i paesi meridionali e cattolici una di borbonica irresponsabilità e inefficienza.

Naturalmente Pascal era francese, e la Francia era e rimane un paese cattolico: l’eresia giansenista era dunque destinata a finire presto, e i giansenisti a finire male. Tutto iniziò nel 1627, quando Giansenio scrisse un libro nel quale faceva notare come sia san Paolo sia sant’Agostino dicevano, a proposito della grazia, cose molto diverse da quelle che predicavano sia la Chiesa cattolica sia i gesuiti. E tutto finì ufficialmente nel 1713, quando venne definitivamente raso al suolo il monastero di Port Royal, che era stato il covo dei giansenisti, anche se ufficiosamente l’ordine religioso ribelle che vi risiedeva era già era stato smantellato fin dal 1679.

Oggi quello che rimane del giansenismo sono le Lettere provinciali, il capolavoro di letteratura francese che Pascal scrisse a cavallo fra il 1656 e il 1657. L’argomento è ormai obsoleto e anacronistico, perché nessuno si interessa più alla grazia e alla confessione, ma lo stile rimane attuale e memorabile, perché lo scrittore mise i gesuiti alla berlina in maniera feroce e crudele, facendo fare loro la figura dei fessi: la stessa che poco prima Galileo aveva fatto fare agli aristotelici e ai tolemaici nei Dialoghi sopra i due massimi sistemi del mondo. A Pascal andò però meglio che a Galileo, nel senso che, essendo morto giovane, non dovette subire processi, e nemmeno assistere alla triste fine di Port Royal. Anche se la memoria dei suoi pensieri matematici e delle sue lettere polemiche è oggi offuscata dai suoi postumi Pensieri filosofico-religiosi, la maggior parte dei quali rivela il lato ottuso dei giansenisti, che costituiva l’altra faccia della medaglia della “furbizia” dei gesuiti. In altre parole, nella disputa fra gli uni e gli altri, la ragione non stava da nessuna parte, ed entrambi spesso e volentieri semplicemente sragionavano.

La scommessa

A parte una mezza dozzina di aforismi da cioccolatino, che sono stati letteralmente usati come tali nei Baci Perugina, dei Pensieri si salva almeno l’interessante argomento della scommessa, che intende convincere il dubbioso a credere in Dio per convenienza. L’idea di Pascal è semplice, e si riduce a questo breve ragionamento. I non credenti rischiano grosso, perché se Dio ci fosse essi perderebbero la vita eterna, che è infinita. I credenti invece rischiano poco, perché se Dio non ci fosse essi sprecherebbero solo la vita terrena, che è finita. Dunque, rischiano molto di più i non credenti a non credere, che i credenti a credere. Naturalmente, dietro questo argomento c’è una ributtante visione utilitaristica della fede: i non credenti potrebbero obiettare che un Dio degno di questo nome manderebbe comunque all’inferno un credente che ha creduto solo per convenienza, perché non voleva correre troppi rischi. Dal canto loro, i credenti associano abitualmente la religione all’amore, ma l’amore è per sua natura disinteressato: la convenienza sa più di prostituzione, e sarebbe molto più convincente un argomento che spingesse a credere disinteressatamente, anche se non conviene. O, addirittura, proprio perché non conviene, alla maniera di Tertulliano.

In altri campi, invece, la scommessa di Pascal diventa naturale e sensata. Applicata ai vaccini e ai rischi connessi, ad esempio, direbbe che il no-vax rischia grosso, perché finora in Italia è morta per Covid ben una persona ogni 500 abitanti, mentre il pro-vax rischia poco, perché finora in Inghilterra, dove la popolazione è stata vaccinata a tappeto, è morta per reazione avversa al vaccino soltanto una persona ogni 100mila abitanti: dunque vaccinarsi conviene 2.000 volte di più che non vaccinarsi. Applicata invece alla lotteria di Capodanno, la scommessa di Pascal direbbe che a partecipare si rischia poco, perché un biglietto costa soltanto cinque euro, mentre a non partecipare si rischia molto, perché la vincita potrebbe essere di cinque milioni.

Un rischio calcolato

Cosa ne penserebbe Bergoglio, della scommessa di Pascal? Come abbiamo già ricordato, il papa è un gesuita, e al solo sentire il nome del giansenista gli si dovrebbero rizzare i capelli in testa, se li avesse: solo un buontempone potrebbe dunque proporgli di prendere seriamente la scommessa di Pascal (non parliamo di canonizzarlo, come sembra gli abbia suggerito tempo fa un ignaro giornalista). Eppure, da perfetto gesuita, è stato proprio papa Francesco a proporre recentemente una versione della scommessa, chiedendo ai fedeli di recitare il rosario ogni giorno di maggio per invocare la fine della pandemia: in fondo, a pregare si rischia poco, perché se Dio non c’è si spreca soltanto mezz’ora al giorno per un mese, mentre a non pregare si rischia grosso, perché se Dio c’è potrebbe continuare a tormentarci con la pandemia.

Ma ancora una volta, come già nel caso della scommessa originaria, dietro l’argomento del papa c’è una ributtante visione utilitaristica della preghiera: i non credenti potrebbero questa volta obiettare che un Dio onnisciente e onnipotente dovrebbe sapere meglio di noi cosa fare, e non cambierebbe certo idea solo perché qualche questuante la pensa diversamente da lui. In ogni caso, da Giobbe a oggi i credenti non sono mai riusciti a spiegare sensatamente come la supposta bontà del Creatore possa coniugarsi con la dimostrata crudeltà della creazione, che le preghiere e i rosari non sono mai riusciti a scalfire, non più di quanto la danza della pioggia sia mai riuscita a far piovere.

Per finire, cosa ne penserebbe Draghi, della scommessa di Pascal? Anche di lui abbiamo già ricordato che ha studiato dai gesuiti, ma per un banchiere le scommesse sono il pane quotidiano. E infatti il presidente del Consiglio ha annunciato di aver deciso di correre un rischio calcolato aprendo inopinatamente l’intero paese, come se la pandemia fosse ormai praticamente debellata.

Nel suo gesuitismo, però, aveva anche criticato duramente l’inefficienza e il ritardo della campagna di vaccinazione, togliendone la gestione a un dirigente d’azienda per affidarla a un generale dell’esercito.

Altro che brava gente

Ma a cosa serve far intervenire un militare, se non gli si affidano i poteri di guerra necessari a mettere e tenere in riga un gregge di pecoroni come il nostro, contagiato non solo dal virus del Covid-19, ma anche da un antiscientismo da ignoranti e da un edonismo da bambini viziati?

Da ottimi ignoranti, gli italiani non capiscono infatti che finora è stato vaccinato (parzialmente, con una dose) soltanto un terzo della popolazione, e che quand’anche tutti fossero vaccinati (completamente, con due dosi), la limitata copertura offerta dai vaccini maggiormente usati (AstraZeneca e Johnson&Johnson) probabilmente non permetterebbe di raggiungere un’immunità di gruppo. Inoltre, da pessimi edonisti, gli italiani dimostrano di privilegiare gli incassi e i divertimenti rispetto alle vite umane. La folle estate dello scorso anno ci è costata 70mila morti, e l’altrettanto folle primavera di quest’anno rischia di costarcene altrettanti. Da mesi continuano a morire ogni giorno centinaia di italiani per il Covid: ogni 12 giorni ne muoiono ancora tanti quante le vittime dell’attentato dell’11 settembre 2001, e in due mesi ne sono morti quanti tutti gli immigrati periti nel Mediterraneo dal 2014, ma i bamboccioni si rallegrano di tornare al ristorante e in palestra! Draghi ha fatto bene a ricordare il 25 aprile che «non tutti gli italiani furono brava gente», ma ha sbagliato il tempo verbale: avrebbe dovuto dire che «non tutti gli italiani sono brava gente». Anzi, così tanti non lo sono, da rendere ributtante il paese che Draghi e Bergoglio guidano, con i loro rischi calcolati e i loro rosari.

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