Il dibattito post-elettorale all’interno del Partito democratico americano è inquadrato, già da ora, all’interno del dualismo tra “sinistra/progressisti” e “centristi/moderati”. E questo non promette nulla di buono.

Non solo perché questa inimicizia rischia di avvelenare l’acqua che tutti dovranno bere, ma soprattutto perché questa dialettica è tanto appariscente quanto nebbiosa, nel senso che nasconde o non fa capire molto di questa vittoria democratica.

Il dibattito ideologico coinvolge e tocca le frange intellettuali e accademiche, molto rumorose ma anche molto minoritarie; non lambisce la cittadinanza larga.

Soprattutto, non consente di comprendere quale potrà essere la strategia per battere il populismo, che non è morto e sepolto insieme alla presidenza Trump. Poco meno della metà degli Stati Uniti si abbeverano al verbo trumpista. Il problema è, dunque, come debilitare il populismo.

Il ritorno del partito

Le elezioni americane del 2020 sono una scuola a cui andare per confermare quel che alcuni hanno intuito: una delle ragioni della vittoria populista sta nell’erosione del partito politico, e in particolare nella scomparsa dal territorio dei partiti di centro-sinistra.

È da qui che occorre partire per battere il populismo, non dagli esercizi retorici su “vera” e “falsa” sinistra e, neppure, pensando di battere il populismo di destra con un populismo di sinistra.

Per capire queste elezioni straordinarie che hanno portato la coppia Joe Biden-Kamla Harris alla Casa Bianca, occorre andare in quelle aree periferiche che hanno fatto la differenza.

Negli stati del sud. Qui si vede il potere determinante della strategia politica e dell’organizzazione. Il partito è stato l’attore della vittoria democratica in uno stato centrale come la Georgia, da decenni repubblicano.

La vittoria democratica di questo stato merita studio e attenzione, perché ci parla con grande chiarezza dello stato (critico) e delle opportunità (molte e inesplorate) delle nostre democrazie; di tutte le democrazie, non solo quella statunitense. La vittoria in Georgia è stata una prova di grande leadership/organizzazione: una prova della centralità del partito democratico non di una personalità. Dimostra che la vittoria, da sola, è una mezza vittoria.

Non è sufficiente avere tanti voti in un’elezione, anche se a quelli bisogna comunque mirare. È necessario che quei voti siano “costruiti” se così si può dire, e che restino oltre e dopo l’elezione. Stacey Abrams è stata l’artefice di questo successo di partito, come collettivo e forza organizzata sul territorio.

Il significato di questo successo è stato colto dagli osservatori politici: si tratta della prima donna afroamericana ad avere un ruolo di leadership in uno stato del sud cuore e simbolo della vecchia Confederazione (ancora onorata e con la bandiera che sventola quasi ovunque), non solo per il monumentale Via col vento, che in un teatro di Atlanta si proietta ogni giorno per 24 ore.

Atlanta fu la città simbolo della guerra civile – divenne nel giro di qualche mese un’infermeria a cielo aperto e un cimitero. Restò un simbolo del risentimento dei bianchi del sud contro i bianchi del nord (gli yankees) e della convinzione schiavista che gli afroamericani non meritassero il voto.

Stacey Abrams nel 2018 non ha vinto le elezione a governatore dello stato per soli 55mila voti, ma da allora ha portato il suo partito a vincere contro Trump. In un decennio ha contribuito a ideare la costruzione di movimenti dal basso (grassroots), il più importante dei quali è il Center for public integrity, che ha denunciato la violazione sistematica del diritto di voto ai cittadini neri.

La forza di Stacey

Il movimento è riuscito, insieme ad altre associazioni, a mobilitare fin nei villaggi isolati e lontani dalla città migliaia di cittadini appartenenti ad altre minoranze, latino-americane e asiatiche-americane, portandole a votare.

Accanto a queste, altre associazioni per la sensibilizzazione della condizione di discriminazione nei luoghi di lavoro (soprattutto pesante per le donne nere), di mancanza di finanziamenti alle scuole pubbliche, di servizi sanitari inesistenti.

Abrams in uno dei suoi discorsi reiterati da tutti gli organizzatori diceva questo: «Si disinvestono energie e soldi dalle vostre scuole locali: questo è ciò fa Donald Trump mentre siamo in pandemia. Dobbiamo smettere di focalizzarci su Trump e andare a vedere chi sono coloro che, vicino a voi, rendono ciò possibile. Perché se ignoriamo che le elezioni sono “locali”, che partono da qui, dal fatto che siamo noi che abbiamo dato il nostro permesso a Trump, allora dobbiamo solo tacere».

Il non aver capito questo spiega la vittoria di Trump in Texas, soprattutto nelle zone di confine con il Messico, dalla Valle del Rio Grande a El Paso, a Sant’Antonio: qui il successo di Trump è stato proporzionale all’assenza del partito democratico, un’assenza cronica. Che si è tradotta nella mancanza di contro-risposte alla campagna di disinformazione e falsità messa in moto dai repubblicani, sostenendo peresempio che l’ecologismo di Biden avrebbe segnato la fine dell’economia del Texas. Un argomento che ha marciato senza ostacoli per arrivare diritto ai seggi. Il fallimento del Texas dimostra il valore del successo in Georgia.

Il territorio conta

Il caso della Georgia ci dice alcune cose importanti, due in particolare. Innanzitutto che il dibattito ideologico arriva molto raramente alla periferia, fuori della cerchia intellettuale; e poi che occorre farlo marciare con altre gambe, quelle del partito organizzato, che deve tradurre le idee di giustizia e di eguaglianza nella lettura della situazione in un territorio specifico, facendone lenti per leggere i problemi vissuti dalle persone. L’ideologia non come esercizio accademico, ma come arma politica.

La seconda cosa che il caso della Georgia ci dice è che occorre correggere un’idea purtroppo diffusa – ovvero che per battere un populismo di destra ne serva uno di sinistra. Al contrario, per battere, alla radice, il populismo occorre una democrazia dei partiti, dove il partito sia una scuola di formazione del giudizio pubblico e politico, che emancipi i cittadini dallo stato di indifferenza o di subalternità generato dalla campagna mediatica dei populisti.

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