Periodicamente in Italia, ormai da qualche anno, si accende il dibattito sull’alternanza scuola lavoro. Introdotta vent’anni fa dall’allora Ministro Letizia Moratti, praticata da poche scuole fino alla sua obbligatorietà introdotta dalla riforma della Buona scuola di Matteo Renzi, poi depotenziata con i nuovi Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (Pcto) dal governo Conte I adesso torna in auge dopo le dichiarazioni del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara che si impegna a riformarla ulteriormente.

I numeri del fenomeno sono imponenti. Negli anni successivi alla Buona scuola circa il 95 per cento degli istituti scolastici (seimila) svolgeva attività di alternanza, con quasi un milione di studenti e studentesse coinvolte. Ad oggi purtroppo un monitoraggio sistematico sui Pcto non è disponibile ma difficilmente i numeri saranno molto diversi.  

Sullo sfondo però resta un nodo culturale e politico che, se affrontato come spesso è affrontato nel nostro Paese, rischia di polarizzare il dibattito tra due posizioni entrambe distanti dalle profonde trasformazioni economiche e sociali che pure l’Italia sta vivendo. Da un lato chi riduce l’alternanza scuola-lavoro a uno strumento funzionale alle esigenze delle imprese, così da orientare i percorsi didattici nel loro contenuto a quanto effettivamente richiesto dal tessuto produttivo per far sì che si riduca, almeno sulla carta, il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, a vantaggio di imprese e lavoratori.

Dall’altro chi sostiene la netta separazione tra scuola e lavoro, sostenendo che questi due mondi debbano mantenersi più lontani possibile perché la scuola deve unicamente formare la persona mediante nozioni teoriche che la pratica non può arricchire, con il lavoro che sarebbe quindi un corpo estraneo all’interno di un impianto pedagogico già di per sé sufficiente. In mezzo andrebbe invece riscoperta l’alternanza, o meglio l’integrazione, tra la scuola e il lavoro come metodo pedagogico nel quale gli studenti vengono introdotti al mondo non solo mediante la dimensione teorica ma anche, intenzionalmente e su aspetti specifici, quella pratica.

Modelli virtuosi

E le criticità dell’implementazione dell’alternanza scuola-lavoro negli ultimi anni stanno tutte qui, nel far sì che i milioni di giovani impegnati in questi percorsi lo facciano a partire da una adeguata progettazione e supportati da adeguati tutor sia in azienda che a scuola. E per far questo non è possibile immaginare l’alternanza senza un vero e proprio sistema dell’alternanza scuola-lavoro che coinvolga i territori, le imprese, le scuole, le pubbliche amministrazioni, i sindacati e la rappresentanza datoriale. Nei paesi europei che spesso si citano come esempi positivi per l’integrazione scuola lavoro (Germania, Austria ecc.) avviene proprio questo.

L’integrazione tra scuola e lavoro non è un qualcosa relegato al rapporto tra qualche docente più o meno volenteroso e illuminato che si sforza, magari senza una giusta conoscenza (comprensibilmente) del tessuto produttivo locale e delle logiche organizzative interne alle imprese di trovare altrettanti imprenditori volenterosi e non solo desiderosi di manodopera gratuita. Al contrario c’è una convergenza degli attori locali nella consapevolezza che la natura formativa di queste esperienze esige una loro specifica progettazione, e che la costruzione dei mestieri e delle professioni di cui c’è bisogno non passa da un semplice e disorganico inserimento dei giovani nelle imprese. Occorre un allineamento tra le esigenze formative proprie dei piani definiti dalle scuole e quello che la realtà del lavoro può contribuire a dare. L’alternativa è un esercito di giovani non pagati e forse neanche troppo utili per le imprese. 

Per questo si capisce che il tema oggi, in Italia, non sia tanto quello dell’intervento legislativo. Non c’è legge ideale che possa risparmiare l’ingaggio di attori che possono supportare la scuola nel compito di far sì che l’integrazione con il lavoro sia occasione di costruzione della persona e del cittadino. Considerando però che l’inizio dell'alternanza scuola-lavoro è a scuola, inevitabilmente perché allora non immaginare fondi adeguati per coprire il tempo speso dai docenti in queste attività di progettazione, per la formazione dei tutor e per percorsi di orientamento e progettazione per scuole e aziende a livello territoriale? Questo con il coinvolgimento attivo della rappresentanza datoriale e sindacali e delle camere di commercio, che già oggi devono ospitare i registri delle imprese disponibili a fare alternanza. Potrebbe essere un primo passo.

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