È Pechino il convitato di pietra del G7 che si conclude oggi in Cornovaglia, ospitato da una Gran Bretagna fresca di Brexit e con rinnovate ambizioni globali. Assieme ai sette grandi, come special guests, tre alleati delle economie più avanzate nell’Asia-Pacifico, tre democrazie: l’India (con una politica tradizionalmente indipendente), la Corea del Sud e l’Australia (saldamente inserite nel dispositivo militare statunitense nell’area).

Tutti i paesi del G7, escluso il Giappone, hanno varato sanzioni contro Pechino per la repressione del movimento di Hong Kong e dei musulmani del Xinjiang. Tutti i paesi del G7 (che negli anni Settanta generavano l’80 per cento del Pil mondiale e oggi la metà) temono l’aumento dell’influenza cinese, soprattutto in Asia e nel Pacifico.

Questo G7 allargato alle democrazie dell’Asia-Pacifico non impensierisce però la leadership cinese, secondo la quale l’organizzazione fondata nel 1975 (in piena Guerra fredda) mal rappresenta la geografia del potere in un mondo che si fa sempre più multipolare, nel quale Xi Jinping e compagni rivendicano pari dignità per il «socialismo con caratteristiche cinesi», che giudicano «superiore» alle democrazie liberali.

Il calcolo di Pechino è semplice: quanti saranno disposti a seguire l’amministrazione Biden in una politica che ricorda il containment applicato con successo contro l’Unione sovietica durante la Guerra fredda? Tutti concordano che su dossier come i cambiamenti climatici e la lotta alla pandemia non si potrà fare a meno della Cina – primo emettitore mondiale di diossido di carbonio e tra i maggiori produttori ed esportatori di vaccini – ma si dividono su se, come e quanto fare affari col primo partner commerciale di 130 paesi e primo mercato per un’infinità di prodotti e servizi.

Secondo gli analisti cinesi, l’invito di Biden agli alleati a fare fronte comune contro la Cina non rivela solo un modus operandi diverso da Trump, ma segnala anche la relativa debolezza degli Stati Uniti. La relazione con Washington – a Pechino ne sono convinti – andrà avanti tra dialogo e scontri continui, soprattutto su tecnologia e commercio: così negli ultimi giorni Washington ha ordinato di rivedere la sicurezza di tutte le app straniere e incluso nella lista nera una sessantina di compagnie cinesi.

La scommessa su Johnson

La leadership cinese scommette anzitutto su Boris Johnson, che pure aveva interrotto la “luna di miele” tra Pechino e Londra andata avanti a suon di investimenti miliardari durante i governi Brown, Cameron, e May. Dopo l’uscita dall’Ue, per Londra l’importanza dei mercati asiatici è aumentata, per questo Johnson spinge per bilanciare la tutela dei diritti dell’uomo e la difesa dell’autonomia hongkonghese e della democrazia taiwanese con la necessità di istituire rapporti commerciali più stretti con Pechino. La “Integrated Review”, la sua prima strategia ufficiale di politica estera, lo ha messo nero su bianco, con 29 riferimenti alla Cina (contro 15 agli Usa, 14 alla Russia e 12 alla Francia). Con una certa dose di ipocrisia il documento afferma (così come la Ue) che la Cina è un «rivale sistemico», con il quale però la Gran Bretagna «continuerà a perseguire relazioni economiche positive, inclusi legami commerciali più stretti e maggiori investimenti cinesi nel Regno Unito».

Nell’attesa di verificare come soffierà il vento in Germania dopo le elezioni politiche del prossimo autunno (i Verdi, dati per favoriti, sono per la “linea dura” contro la Cina), la leadership di Pechino ritiene che l’Unione europea – che per la Rpc, prima della pandemia, era il primo partner commerciale – non si allineerà alle posizioni statunitensi su commercio e investimenti, nonostante la recente sospensione del Comprehensive agreement on investment (Cai). I media cinesi hanno dato grande risalto alle parole di Emmanuel Macron che, dopo aver dichiarato nel 2019 la «morte cerebrale» della Nato, alla vigilia di questo G7 ha rinnovato la sua fiducia nel progetto di «sovranità europea», che comporterebbe una nuova partnership tra Washington e Bruxelles caratterizzata da una maggiore indipendenza di quest’ultima. Pechino ha inoltre registrato con soddisfazione la dichiarazione dell’ex funzionario del governo di Parigi incaricato della cooperazione Francia-Cina sulle malattie infettive Gabriel Gras, che si è detto «sicuro al 100 per cento» che, per i suoi eccezionali standard di sicurezza, il virus non possa essere fuoriuscito dal laboratorio di Wuhan (costruito con tecnologia francese) al centro dell’inchiesta commissionata da Biden alla Cia.

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