Dopo aver assistito all’indegno spettacolo di parlamentari strapagati che chiedono di nascosto il bonus da 600 euro per i professionisti in difficoltà risulta difficile avere una discussione serena sul referendum costituzionale del 20 e 21 settembre. Eppure è necessario, perché la nostra democrazia rappresentativa, costruita faticosamente sulle macerie del fascismo e della guerra, si regge sui rappresentanti e sulla partecipazione informata dei rappresentati, cioè noi elettori.

Il quesito del referendum riguarda l’approvazione di una riforma costituzionale promossa dal Movimento 5 stelle e approvata con una larga maggioranza dai due rami del parlamento, che riduce il numero dei deputati da 630 a 400 e quello dei senatori da 315 a 200.

A quale scopo? La risposta la prendiamo dal sito del dipartimento per le Riforme istituzionali, guidato prima dal ministro Riccardo Fraccaro (che era anche ministro per la “democrazia diretta”) e ora affidato a Federico D’Incà, entrambi Cinque stelle: “L’obiettivo è duplice: da un lato favorire un miglioramento del processo decisionale delle camere per renderle più capaci di rispondere alle esigenze dei cittadini e dall’altro ridurre il costo della politica (con un risparmio stimato di circa 500 milioni di euro in una Legislatura)”.

Se questi sono gli obiettivi, per decidere come votare a settembre bisogna rispondere a qualche domanda: la riforma proposta permette di favorire il processo decisionale? Rende le camere più capaci di rispondere alle esigenze dei cittadini? Riduce i costi della politica?

Se la risposta a queste domande è positiva, allora può essere conveniente ridurre il numero degli eletti, anche accettando che un minore numero di parlamentari equivale a una minore rappresentanza degli elettori. Quindi, in assenza della democrazia diretta promessa dai Cinque stelle (sperimentata con risultati dubbi sulla piattaforma Rousseau), a una minore possibilità di essere parte del processo decisionale.

L’aspetto curioso è che neppure i promotori della riforma provano a dimostrare che l’impatto sarà quello promesso.


L’efficienza e i costi

I dossier di documentazione della Camera e quelli presenti sul sito del ministero dedicano molte pagine ai confronti internazionali (per dimostrare che anche 600 parlamentari non sono così pochi), alla dimensione dei collegi elettorali, al nuovo ruolo degli italiani all’estero (che non si è mai capito perché votino nelle elezioni di un paese nel quale non vivono). Ma sulla maggiore efficienza non c’è una virgola.

Sulla capacità di un parlamento più piccolo di essere maggiormente rappresentativo non si trova un solo paragrafo. E solo un certo provincialismo porta a comparare le camere ridotte con il Congresso degli Stati Uniti (435 deputati e 100 senatori), che è il parlamento di uno stato federale in una repubblica presidenziale, quindi non c’entra nulla con quello italiano.

L’argomento dei costi, poi, è privo di senso: 500 milioni ogni cinque anni fanno 100 milioni all’anno. Senza un solo minuto di dibattito parlamentare, il governo Conte II ha deciso di nazionalizzare per l’ennesima volta Alitalia con un investimento pubblico di 3 miliardi in una compagnia decotta. Quindi ha bruciato trent’anni di risparmi dal taglio dei parlamentari, almeno sei legislature.

Se 100 milioni all’anno su un bilancio pubblico da 800 miliardi sono considerati un risparmio rilevante, allora facciamo anche un referendum su Alitalia.

Il governo e le forze politiche che hanno sostenuto la riforma, in primis Cinque stelle e Lega, non hanno alcun vero argomento a sostegno del taglio dei parlamentari. Citano tutti i tentativi precedenti di variare il numero di deputati e senatori nei decenni, a dimostrazione che loro, finalmente, ci stanno riuscendo. Ma non spiegano perché il parlamento sarà migliore con meno membri.

Un parlamento più piccolo sembra funzionale soltanto a un disegno, abborracciato e ormai destinato a rimanere incompiuto, dei Cinque stelle di introdurre forme di democrazia diretta o almeno poco mediata, come il referendum propositivo, attraverso il progressivo svuotamento dei canali della democrazia rappresentativa. Ma nel contesto attuale non si capisce che beneficio dovrebbe trarre l’elettore dal fatto di perdere un po’ di parlamentari.

Nel breve periodo ci sarebbero sicuramente problemi: la legge elettorale da rifare, i regolamenti parlamentari da adeguare, i collegi elettorali da ridisegnare. Ma neppure nel lungo periodo è chiaro perché l'efficienza dovrebbe aumentare o la qualità del personale politico migliorare.

Di sicuro in questi anni il parlamento è stato svuotato di competenze e autorevolezza, anche per colpa dei parlamentari che lo compongono, scelti dai segretari di partito (o più o meno a caso, tra i Cinque stelle) invece che dagli elettori, e dai governi che hanno abusato dei decreti legge fino all’ultima evoluzione: il ricorso ai dpcm, i decreti della presidenza del Consiglio utilizzati dal premier, Giuseppe Conte, che non passano neppure dal parlamento per la conversione, come invece accade per i decreti legge.

È chiaro che in questa prospettiva il parlamento è pletorico: ma allora invece che 600 deputati teniamone soltanto sessanta, come omaggio puramente simbolico a un’epoca in cui il parlamento qualcosa contava. A che servono 600 deputati e senatori a cui ormai non viene più concesso neppure il tempo di leggere il testo della legge di bilancio, il provvedimento più importante dell’anno, prima di votarla?

Il precedente del 2016
Gli elettori italiani hanno già votato sulla riduzione del numero dei parlamentari, nel 2006 (riforma di centrodestra) e nel 2016 (riforma del centrosinistra renziano), in entrambi i casi si sono opposti. Perché gli scenari alternativi a quello attuale erano addirittura peggiori.

Nel 2016 il governo Renzi voleva stravolgere la Costituzione per alcune ragioni sensate, per altre discutibili e per altre ancora indicibili: per mettere ordine nei rapporti tra stato centrale e regioni, per rendere il parlamento più piccolo ed efficiente, per dominarlo al meglio grazie a una legge elettorale (incostituzionale) che avrebbe consegnato al Pd i pieni poteri sulla base di sondaggi che poi si sono rivelati effimeri.

Al netto della parte sui poteri delle regioni, che aveva elementi fondati come si è visto durante la pandemia nel caos sanitario tra governatori e ministero della Salute, il resto non aveva senso e ha suscitato una trasversale indignazione. Sostituire un Senato di eletti con un gruppo di amministratori locali nominati che dovevano votare leggi fondamentali nel tempo libero, quasi fosse un dopolavoro, è parso un po’ assurdo al 60 per cento degli italiani.

L’argomento dei risparmi economici veniva, giustamente, sbertucciato anche all’epoca: poche decine di milioni all’anno. E l’idea di un parlamento più piccolo, dominabile da un solo partito, spaventava.

Almeno i renziani avevano fatto lo sforzo di inventare una narrazione di maggiore efficienza, contraddetta però da un testo di riforma così confuso che nessuno aveva ben chiaro neppure quali compiti avrebbe avuto il nuovo Senato.

Nella riforma del 2020 i promotori non ci hanno neppure provato: vogliono un parlamento più piccolo, all’insegna del principio less is more. Meno parlamentari ci sono, meglio è. Punto.

Uno degli aspetti discutibili della riforma Renzi era l’elevazione di sindaci e delegati dai consigli regionali al rango di senatori non eletti ma influenti.

Pure in questa riforma ci sono oscuri delegati regionali che si trovano dotati di superpoteri senza ragione alcuna: 58 persone, non elette ma indicate dalle regioni, che partecipano, tra l’altro, al voto per scegliere il presidente della Repubblica.

Nell’ultima elezione, quella per Sergio Mattarella nel 2015, pesavano poco: 58 su 1009, pari al 5,7 per cento. Ora passano all’8,9 per cento, con il rischio di essere decisivi nella scelta del prossimo capo dello stato. Perché togliere potere ai rappresentanti eletti per darla a delegati nominati? Non si sa, e il governo non lo spiega.

Nel 2016 ho votato con convinzione contro la riforma costituzionale del governo Renzi: intervenire sul parlamento è delicato, farlo in nome di un malinteso slancio di rinnovamento che mascherava disegni di dominio e “pieni poteri” mi sembrava assurdo e pericoloso.

Oggi gli stessi partiti che avevano votato contro quella riforma a difesa della Costituzione vogliono cancellare parlamentari per risparmiare 100 milioni all’anno, promettendo presunti miglioramenti ed efficienze. Si aggiunge il paradosso del Pd, che è riuscito a essere prima a favore della riforma Renzi, poi contro quella del Lega-Cinque stelle, poi però l’ha approvata in cambio della partenza del Conte II e ora non sa bene cosa votare.

Chi, come me, nel 2016 ha votato in difesa del parlamento e degli equilibri tra poteri previsti dalla Costituzione, per coerenza non ha molte alternative che votare no alla riduzione dei parlamentari.

Mi rendo conto che è una posizione probabilmente destinata a essere minoritaria, perché oggi come nel 2016 in tanti voteranno a prescindere dal merito della riforma ma sulla base delle conseguenze politiche del risultato: quattro anni fa per consacrare o congedare Matteo Renzi, oggi per salvare o sabotare gli equilibri Pd-Cinque stelle alla base dell’attuale governo.

Ma ai referendum costituzionali, lo dice la parola, si vota per riscrivere la Costituzione. Anzi, si vota per valutare se tra gli elettori c’è un sufficiente consenso a legittimare le decisioni già prese in parlamento con ampie maggioranze. È un supplemento di verifica previsto dai padri costituenti per essere sicuri che la riscrittura delle regole della competizione democratica sia davvero condivisa.

L’onere dell’argomentazione è a carico dei sostenitori della riforma. Tradotto: sono i sostenitori del Sì al taglio dei parlamentari che devono convincerci che Camera e Senato funzioneranno meglio con meno membri, non tocca a chi propende per il No difendere l’esistente.

E a me, cari promotori della riforma e sostenitori del Sì, non avete convinto. Quindi, come nel 2016, voterò a difesa della Costituzione che abbiamo invece di abbracciare cambiamenti motivati da impalpabili e ipocriti risparmi e vaghe idee di democrazia diretta che, in società più complesse delle polis greche, di solito implicano meno democrazia.

© Riproduzione riservata