Nelle democrazie liberali è buona norma assegnare dei ruoli di garanzia all’opposizione, per evitare il rischio di una «tirannia della maggioranza». Così in Italia, dal 1976 al 1992 il presidente della Camera fu espresso dal Pci (Pietro Ingrao, poi Nilde Iotti). A quel tempo vigeva il proporzionale. Con la Seconda repubblica siamo passati al maggioritario, ragion per cui questa regola non scritta è diventata ancora più preziosa.

Ma proprio allora, quando cioè ne avevamo più bisogno, questa buona prassi è stata abbandonata. Fu opera di Silvio Berlusconi. Appena vinte le elezioni, nel 1994, Berlusconi pretese per il suo schieramento sia la presidenza della Camera, con Irene Pivetti, sia quella del Senato, con Carlo Scognamiglio (che vinse peraltro in una partita all’ultimo voto contro una personalità del calibro di Giovanni Spadolini).

Da allora non ci siamo mai più ripresi. Il centrosinistra elesse entrambi i presidenti delle camere ogni volta che vinse le elezioni (1996, 2006, 2013) e così, naturalmente, fece il centrodestra (2001, 2008). Ma fu Berlusconi a stabilire il principio. Fu lui che impresse un marchio muscolare al nostro bipolarismo, che segnerà poi tutta la Seconda repubblica – e per inciso, non aiutò la soluzione dei nostri problemi di lungo periodo.

La seconda ferita inferta alle buone regole di una democrazia liberale è se possibile ancora più grave. Nel 2005, dopo quattro anni di governo, il centrodestra era in grave difficoltà; difatti, nelle elezioni regionali dell’aprile 2005, il centrosinistra aveva vinto in ben 12 regioni su 14. Con la legge elettorale in vigore dal 1993, il buon Mattarellum, l’esito delle politiche sembrava segnato.

Ebbene, a pochi mesi dal voto, e fra le proteste vibranti e inascoltate dell’opposizione (maggioritaria nel paese), Berlusconi decise di cambiare la legge elettorale, sperando così di aumentare le sue chances di vittoria. Fu il cosiddetto «porcellum». Per la cronaca: alla fine perse lo stesso, ma di molto poco, e dopo una nottata drammatica per la nostra democrazia, segnata da gravi sospetti – condivisi da Massimo D’Alema e Marco Minniti – di aver provato a manipolare il conteggio elettronico dei voti.

In breve: in Italia, quando era al potere, Berlusconi è stato il primo a violare le buone norme di una democrazia liberale, in modo a volte spudorato e anche spregiudicato. Fra i leader occidentali solo Donald Trump, a memoria recente, si è comportato peggio di lui. Anche se avesse una fedina penale immacolata, anche se non avesse mai ingaggiato per anni un contenzioso durissimo con la magistratura, anche se non avesse avuto il conflitto di interessi e non usasse i suoi giornali e le sue tv per colpire gli avversari – e ciascuno di questi motivi basta e avanza per renderlo improponibile come presidente della Repubblica – Berlusconi sarebbe comunque inadatto. E non tanto perché leader di una parte. Ma per il modo in cui ha svolto e svolge questo ruolo.

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