Jorge Luis Borges parlava dell’aspirazione ad avere un passato illustre: fa onore sostenere che il presente deriva dal passato perché «a nessuno piace riconoscere di dover qualcosa ai propri contemporanei». La massima dello scrittore argentino non si adatta tuttavia ai populisti contemporanei. I quali hanno tratto legittimazione dal trumpismo, facendo dimenticare che sono parte di una storia lunga, cominciata con il fascismo, anzi con le ombre che il fascismo ha lasciato dopo la sua caduta. Dal punto di vista storico, il populismo al potere nella democrazia post-fascista è forse l’aspetto più dirompente del secondo dopoguerra.

La terza via tra fascismo e comunismo

Avvenuta per la prima volta in America Latina dopo il 1945, si è gradualmente aperta una breccia anche nelle società a cosiddetta democrazia consolidata. Nel corso dei decenni, paesi come l'Argentina, il Brasile, la Bolivia e il Venezuela hanno testimoniato in modo significativo i rinnovati tentativi di stabilire le basi di un regime di “terza via”: diverso dal fascismo (spesso letto in contrapposizione a populismo) dalla liberal-democrazia (“formalistica” e con una cittadinanza tendenzialmente apatica) e dal comunismo (collettivista e classista). Il populismo come regime politico si è proposto sia contro i due nemici della guerra fredda nella quale è cresciuto, sia contro il defunto fascismo.  

Con la fine della guerra fredda, il populismo ha dimostrato una straordinaria vitalità e versatilità. Non essendo stato usato dai due regimi politici antagonisti  – liberal-democratico e comunista—per combattersi l’un l’altro, il populismo ha rivelato un’indipendenza da queste ideologie che ha fatto la sua fortuna. Venendo dopo il fascismo, ha goduto anche di una innocenza storica rispetto alla criminalità totalitaria. Irriducibile alla liberal-democrazia senza rinunciare al consenso popolare e alternativo al classismo marxista senza rinunciare a politiche sociali, il populismo ha raccolto alcuni aspetti del mito fascista del popolo incarnato nel leader provvidenziale senza adottare uno statalismo repressivo.

Con questa sua specificità, ha accumulato una lunga storia globale, capace di adattarsi alle varie esperienze nazionali. Questa storia torna oggi utile per comprendere le possibili strategie o traiettorie di uscita dal populismo al potere. 

Le vie d’uscita

Nei paesi dell’area atlantica – Europa e Stati Uniti –  le vie d’uscita dal populismo del ventunesimo secolo hanno per ora preso due direzioni, una tecnocratica (deprimendo la politica partitica) e una politica (riconfigurando la politica lungo i canali partitici).

Nel primo caso, rappresentato da Emmanuel Macron, la soluzione è consistita nel federare tutte le forze anti-populiste sotto le bandiere della “meritocrazia” e della “reponsabilità”, con lo scopo di andare oltre la destra e la sinistra ma anche di superare la distinzione tra politica e tecnocrazia. Il padrino di questo corso fu il Labour di Tony Blair, il quale dichiarò dopo la vittoria elettorale del 1997: «Ora noi siamo il partito del popolo, il partito di tutto il popolo».  Un partito d’opinione e generalista che rifiutava i “preconcetti ideologici” e preferiva la governance al governo, il metodo impolitico della “democrazia del monitoraggio” e della valutazione oggettiva degli output. L’Unione europea ha negli anni abituato gli stati membri a questa pratica tecnocratica.

Modello Biden

Nel secondo caso, rappresentato da Joe Biden, la strada seguita è quella della classica progettualità politico-partitica. Il nuovo presidente, dopo una campagna elettorale all’insegna della moderazione e dell’unità nazionale, una volta eletto e in seguito all’assalto dei trumpisti al Campidoglio il 6 gennaio, ha cambiato rotta; ha scelto di ascoltare l’ala più radicale del suo partito, che da tempo proponeva politiche di intervento statale, di redistribuzione e di tassazione progressiva. Invece di lasciar cadere le posizioni ideologiche, Biden ha armato la sua politica di un linguaggio chiaramente socialdemocratico, rinunciando alle soluzioni bi-partisan, perseguite (senza successo) da Obama.

In Europa, l’uscita dal populismo sembra andare verso l’assorbimento del conflitto all’interno di una espansione della tecnica che deprime il protagonismo dei partiti ed esalta la progettualità e le competenze manageriali.

Negli Stati Uniti, la strada per togliere ossigeno al populismo viene da un forte intervento dello Stato per emancipare dalla povertà e dall’esclusione quelle parti di populazione dalle quali, del resto, è venuto il supporto massicio a Trump. Nessun timore di lanciare progetti di parte e di avere un’opposizione di parte. 

Diciamo che le due traiettorie di uscita dal populismo riflettono due linee di interpretazione delle cause del populismo: la prima insiste sulla troppa politica e la scarsa razionalità delle affiliazione partitiche, che radicalizzano lo scontro senza dare soluzioni pacificatrici; la seconda insiste sulla troppa demagogia della politica del pubblico e generalista e rilancia il ruolo dei partiti.

Sia in Europa che negli Stati Uniti, il successo elettorale del populismo è recente. Ma come si è configurata l’uscita dal populismo in paesi che hanno per lungo tempo praticato forme politiche populiste, sia di opposizione che di governo? Questa domanda ci porta all’America Latina, dalla quale abbiamo preso le mosse.

a sua esperienza è importante al fine di comprendere le conseguenze di lungo periodo che una stabilizzazione del populismo potrebbe avere sulle istituzioni democratiche. Un problema che è stato tuttavia sottovalutato dai populism studies, anche perché dominati da una concezione minimalista della democrazia, rispetto alla quale non è un problema che ci sia una maggioranza populista fino a quando essa accetta il verdetto elettorale. Insomma, secondo il minimalismo democratico, Donald Trump è stato un problema non prima delle elezioni di novembre, ma dopo.

Cosa resta di Trump

Se studiamo le esperienze dell’America latina in merito al populismo vediamo che le strade non sono poi così diverse. Ci sono state risposte estreme, spesso difese nel nome di soluzioni tecnocratiche, come i colpi di stato.

Trump ha fatto comprendere che questa possibilità esiste anche nei paesi del “primo mondo”, dove la forza delle istituzioni è forse il vero asso nella manica della democrazia.  Ma se si esclude il cambio di regime, in generale le risposte al populismo autoritario in America latina non sono diverse da quelle emerse nei paesi dell’area atlantica. E comportano, sia forme di populismo leggero o moderato come nel caso di Mauricio Macri in Argentina, sia forme tecnocratiche di destra come nel caso di Sebastian Pinera in Chile, o forme di populismo di sinistra (ma non socialdemocratico) come nel caso del peronismo kirchnerista in Argentina or di Pedro Castillo in Perù.

Mauricio Macri (AP Photo/Tomas F. Cuesta, File)

Recentemente, il populista Alberto Fernandez, l’attuale presidente dell’Argentina, hanno sostenuto che Biden è alla fine simile a Perón, anzi un nuovo Juan Domingo. Ma Biden not è in alcun modo un populista. A lui mancano tutti gli ingredienti del populismo: il paternalismo, la demagogia, l’uso della religione, l’anti-pluralismo, il culto del leader, l’impazienza con la divisione dei poteti. Indubbiamente, la risposta statunitense al populismo è quella più in sintonia con la democrazia. Quella tecnocratica coltiva un’aura di olismo anti-partitico che la tiene ancora dentro il cono d’ombra del populismo.

Se quella di Biden è la risposta propriamente democratica al populismo, possiamo concludere che il ritorno alla politica partitica e programmatica sia la risposta vincente anche alla paura del fascismo oltre che al successo del populismo?

Lo storico Samuel Moyn ha scritto che questa non è una soluzione nè radicale nè sufficiente, e che lo stimolo governativo di Biden impallidisce di fronte a quello di FD Roosevelt.

Simili critiche hanno fatto anche Matt Karp e David Sirota della rivista Jacobin. Ma la comparazione in negativo con il New Deal non è convincente. Non solo per la struttura ideologica radicale del o-tutto-o-niente che la ispira e per l’identificazione di Biden come immagine rovesciata di Trump, ma anche per il suo antistoricismo.

Queste critiche non prestano attenzione al contesto di capitalismo finanziario globale nel quale è cresciuto il trumpismo. Non si può ignorare il fatto che il piano programmatico di Biden viene dopo decenni di abbattimento della tassazione delle ricchezze secondo l’ideologia del trickle-down. Per cui il cambio di direzione di Biden con l’attacco diretto a questa ideologia è indubbiamente una svolta radicale. E inoltre, il suo piano è concepito con l’intento di avere un impatto trasformativo sulle vite delle persone immiserite dalla crisi finanziaria del 2008.

Quello di Biden rappresenta senza dubbio una risposta democratica all’assalto anti-democratico del populismo. Una risposta che non si accontenta di incentivi e interventi normativi indiretti, che vuole aggredire la povertà, il disagio e la discriminazione con azioni politiche mirate. Vuole rompere il combinato micidiale di razzismo e disperazione economica che ha reso fatto il successo del trumpismo.

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