Dopo  il piano di salvataggio da 1900 miliardi di dollari votato dal Congresso nelle settimane scorse, l’amministrazione Biden ha raddoppiato con la proposta di un piano di investimenti in infrastrutture per 2000 miliardi. Questo sarà quasi interamente finanziato con un aumento dell’aliquota dell’imposta sui redditi delle società, dal 21 per cento al 28 per cento. La ministra del Tesoro Janet Yellen propone anche agli altri paesi dell’Ocse di accordarsi su di un’aliquota minima globale sui profitti esteri delle multinazionali. La correzione delle disuguaglianze e un sistema fiscale più giusto sono la priorità della nuova amministrazione americana. Se queste misure andranno in porto, assisteremo ad una svolta epocale nella tassazione delle imprese e nella lotta ai paradisi fiscali.

La teoria dello “sgocciolamento” (trickle down), per cui la riduzione di tasse su redditi elevati e capitale finirebbe per generare crescita e portare benefici anche ai più poveri, è da decenni smentita dai dati. Tuttavia, continua ad avere molti sostenitori, e ha ispirato le recenti riforme fiscali di Donald Trump e Emmanuel Macron.

Addio sgocciolamento

Lo “sgocciolamento” si salda con l’idea che la riduzione delle imposte consenta di attirare talenti, investimenti e attività economica, aumentando la competitività. Sono queste convinzioni che hanno portato molti paesi a cercare di inseguire i paradisi fiscali sul loro terreno, lanciandosi nella corsa alla riduzione delle imposte sulle società (il dumping fiscale): tra il 1980 e il 2020 l’aliquota media globale dell’imposta sulle società è calata dal 46 per cento al 26 per cento.

In questa corsa al ribasso si dimentica troppo spesso che la riduzione delle aliquote e del gettito implica una minore capacità di spesa per sostenere l’economia e finanziare la protezione sociale. Per una piccola economia aperta che prospera sul commercio internazionale questo non è un problema insormontabile. Per paesi più grandi, per cui la domanda interna ha un ruolo importante, ridurre la capacità di azione dello Stato elimina un importante fattore di stabilizzazione, contribuendo a mettere pressione sulle finanze pubbliche.

I grandi paesi, quindi, sono perdenti qualunque cosa facciano; che si lancino o meno nel dumping fiscale vedranno ridursi le entrate fiscali e saranno costretti a tagliare la protezione sociale. Gabriel Zucman ha stimato che l’elusione fiscale costa ai paesi di tutto il mondo più di 200 miliardi di dollari all’anno in minori entrate; per l’Italia si tratta dell’equivalente del 15 per cento del gettito totale derivante dalle imposte sulle società (gran parte del quale, peraltro, a favore dei paradisi fiscali nostrani, in primo piano l’Irlanda e l’Olanda).

La corsa al dumping fiscale distorce la concorrenza, avvantaggiando le grandi multinazionali; queste, contrariamente alle imprese domestiche, possono facilmente “far viaggiare” i profitti tra diverse giurisdizioni eludendo il fisco. Più in generale, il dumping fiscale spinge a identificare la competitività con la sola riduzione dei costi.

Proprio Janet Yellen, presentando il suo piano, ha nei giorni scorsi twittato che in passato «scegliendo di competere sulle tasse, abbiamo trascurato di competere in base all'abilità dei nostri lavoratori e alla forza delle nostre infrastrutture. È una competizione autolesionista e né io né il presidente Biden siamo più interessati a parteciparvi».

Il coordinamento delle politiche fiscali consentirebbe di mettere fine ad un far west nel quale perdono quasi tutti a beneficio di qualche paradiso fiscale e delle grandi multinazionali che oggi non pagano praticamente imposte. In sede OCSE si lavora dal 2013 su un sistema di coordinamento delle politiche fiscali basato su due pilastri: il primo è volto a modificare il meccanismo di ripartizione degli utili delle multinazionali tra paesi, “attribuendoli” ai paesi in proporzione a vendite e fatturato.

Come funzionerebbe l’imposta minima

Nei giorni scorsi l’amministrazione Biden ha rilanciato la discussione con una sua proposta, ma l’efficacia di una tale misura sta nei dettagli del meccanismo di imputazione, su cui siamo ancora molto lontani da un accordo. 

Il secondo pilastro è invece l’introduzione di un tasso minimo effettivo di imposizione, che fermi la corsa al ribasso e il dumping fiscale; è questo tasso minimo che Janet Yellen la settimana scorsa ha proposto di fissare al 21 per cento.

Prendiamo il caso di una multinazionale italiana che opera in Irlanda, dove è tassata al 12,5 per cento. L’Italia esigerebbe da quell’impresa imposte pari all’8,5 per cento dei profitti dichiarati in Irlanda, vale a dire la differenza tra il 21 e il 12,5 per cento. In questo modo l’impresa non avrebbe più l’incentivo di spostare i profitti (o la sede fiscale) dall'Italia verso i paesi a fiscalità agevolata, e l’elusione sarebbe di molto ridotta.

I profitti delle multinazionali residenti nei paesi del G20 sono più del 90 per cento del totale; un accordo sul tasso minimo garantirebbe una tassazione effettiva di almeno il 21 per cento su questi profitti. Per l'Italia si stima che il gettito fiscale recuperato sarebbe intorno ai 7-8 miliardi di euro all'anno. Questo accordo potrebbe vedere la luce a luglio, sotto la presidenza italiana del G20.

Il governo spagnolo si è già espresso a favore della proposta del governo statunitense, mentre Francia e Germania hanno espresso in passato supporto per proposte simili, cosa che permetterebbe loro di continuare a mantenere le loro aliquote (del 31 e 30 per cento rispettivamente) limitando la perdita di gettito fiscale in favore dei paradisi fiscali. Lo stesso vale per l’Italia, con l’attuale aliquota Ires del 24 per cento (a cui si aggiunge l’Irap).

L’accordo sull’aliquota minima potrebbe rappresentare il primo importante tassello di una riforma del sistema di tassazione globale. Per il governo italiano l’opportunità è doppia: potrebbe da un lato intestarsi, da presidente del G20, la riforma; dall’altro lato, potrebbe recuperare parte del gettito che oggi perde a favore dei paradisi fiscali soprattutto europei.

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