È terribile ma forse necessario ammettere che le immagini dei bambini morti sulle spiagge della Libia producono in noi un riverbero emotivo che dura appena lo spazio di un istante. Poi la nostra attenzione si sposta su un’altra immagine tragica, poi su un’altra e su un’altra ancora, una carrellata senza fine di fotogrammi della sofferenza.

A ogni passaggio da un fotogramma all’altro una quota della carica comunicativa del soggetto inquadrato si disperde, la sua capacità di mobilitare la coscienza si affievolisce. È un anestetico che viene iniettato per gradi. Da occasione per intraprendere un serio esercizio di empatia o sofferenza condivisa, l’immagine della morte – di più: della morte innocente – diventa anticamera dell’indifferenza. Intendiamoci: questo effetto non diminuisce di uno iota l’oggettiva gravità della tragedia che le immagini catturano e non costituisce un argomento sensato per limitare la rappresentazione e pubblicazione di certi scatti. Il problema ineludibile è che il soggetto che li guarda è esausto.

Occhi saturi

Ha gli occhi saturi di visioni moralmente insostenibili, che finiscono per cancellarsi automaticamente dalla coscienza. C’è stato un tempo in cui la decisione di pubblicare immagini particolarmente crude o violente era motivata dalla ragionevole aspettativa che l’impatto scioccante potesse risvegliare gli animi intorpiditi, generare consapevolezza, mobilitare.

Oggi questa aspettativa è assai meno ragionevole. La costante documentazione in tempo reale di guerre, genocidi, disastri naturali, carestie, soprusi, violenze di ogni tipo e natura ci permette di sapere e vedere molto più male di quanto potessimo vedere in passato, accorciando drasticamente le distanze. Nella preistoria dell’era digitale si credeva ingenuamente che questo avvicinamento alle sofferenze di persone lontane e invisibili ci avrebbe resi più sensibili ai destini altrui, specialmente dei più deboli.

È vero il contrario. Più vediamo, meno proviamo compassione. Ciononostante, nelle redazioni continua a circolare una delle frasi più sciocche fra quelle che affliggono la professione giornalistica: “Non ne parla nessuno”. Il dramma è invece che tutti parlano di tutto, sempre. Il flusso informativo porta una quantità di immagini del dolore incommensurabilmente più grande rispetto a qualunque capacità di elaborazione umana.

Rimozione emotiva

Scatta così una strana forma di rimozione emotiva. Certo, alcune immagini rimangono, diventando, come si dice, iconiche, ad esempio quella di Alan Kurdi, ma le più passano lasciando soltanto qualche increspatura passeggera. Si tratta di un’evoluzione di effetti che gli psicologi che si occupano di empatia ed elaborazione dei sentimenti collettivi hanno individuato da decenni. Il fenomeno del “psychic numbing”, l’anestesia psichica, è sintetizzato dalla frase “più persone muoiono, meno la cosa ci importa”: quando si parla di un elevato numero di vittime, come nella pandemia, diventa impossibile per la mente elaborarle e per la coscienza soffrire e agire di conseguenza.

La percezione che ogni sforzo individuale sia vano per lenire sofferenze di proporzioni enormi è invece nota come “pseudoefficiency”. Si è spesso pensato che concentrarsi su singoli episodi, casi e storie particolari, potesse aiutare a dare un volto e dunque a generare empatia e mobilitazione. Il fotogiornalismo ha dato un contributo enorme in questo senso. Ma le storie particolari sono diventate così tante, pervasive, onnipresenti e incessanti che gli occhi si sono assuefatti.

Siamo in un cortocircuito: abbiamo l’obbligo di guardare i corpi senza vita di quei bambini, ma abbiamo anche l’obbligo di ammettere a noi stessi che più ne vediamo, meno ne soffriamo. 

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