Nel lessico femminista questa parola esprime consapevolezza del carattere non isolato, non episodico, di queste violenze letali, del loro radicamento in pratiche sociali misogine e in contesti di violazione dei diritti delle donne. Cosa resta di tutto ciò se la si riduce a un elemento del codice penale, riducendone l’impatto trasformativo?
“Femminicidio” è una parola femminista. Una parola con radici precise nelle lotte che, fin dagli anni Settanta, hanno denunciato la cultura sessista all’origine delle uccisioni di donne per mano maschile.
La proposta del governo italiano di codificare il “delitto di femminicidio” per i casi di donne uccide «in quanto donne», può apparire per questo, a una prima impressione, non solo un passo avanti nel riconoscimento della gravità del fenomeno e della sua specificità, ma anche una vittoria dei movimenti femministi che per decenni hanno invocato un cambiamento di approccio da parte della politica e del diritto, e un mutamento culturale della società intera.
I problemi
Però, c’è un però. Anzi due. Il primo è che si tratta di un intervento che ha prevalentemente una valenza simbolica, e nessuna reale capacità (né forse scopo) di deterrenza, in quanto la pena dell’ergastolo per l’uccisione di una donna per motivi di genere, prevista della nuova norma, è già applicabile ai sensi della disciplina attuale, come noto dal caso dell’assassinio di Giulia Cecchettin. Proprio l’intenzione pedagogica della legge, tuttavia, è contraddetta dall’insieme di orientamenti e disposizioni di un governo che non favorisce la libertà delle donne (si pensi ai diritti sessuali e riproduttivi), mentre per bocca dei suoi esponenti attribuisce la responsabilità della violenza stessa alle migrazioni e alle culture “altre”.
Senza considerare che la fattispecie rischia di risultare non applicabile a una gran parte dei casi che nel discorso pubblico sono di norma classificati come “femminicidi”. Con il risultato, paradossale, di far diminuire per legge questi reati.
Il secondo problema, legato al primo, è l’effetto di riduzione di complessità del termine “femminicidio” che avviene con la sua traduzione nel linguaggio penale. Questo, beninteso, è un problema che si incontra spesso quando come soluzione ai problemi che provocano allarme sociale si prospetta la modifica di norme, in particolare l’inasprimento delle pene.
Parlare di femminicidio, negli studi e nella politica femminista, significa esprimere consapevolezza del carattere non isolato, non episodico, di queste violenze letali, del loro radicamento in pratiche sociali misogine e in contesti di violazione dei diritti delle donne; significa comprendere, nel fenomeno, un’ampia gamma di comportamenti come altrettante forme di violenza che conducono all’annientamento della soggettività, prima ancora che all’uccisione.
La capacità trasformativa
Cosa resta di questa ricchezza semantica quando la parola entra nel codice penale, attraverso una proposta di legge che vede l’intervento repressivo del tutto dissociato da azioni di empowerment socio-economico, nonché da strategie di prevenzione di tipo culturale? Nel passaggio dal linguaggio della lotta politica a quello del diritto, all’interno di un provvedimento limitato alla sola introduzione di una nuova fattispecie incriminatrice, la sua capacità trasformativa rischia di andare perduta.
Provvedimenti penali disposti in fretta e a cadenza mediatica – in questo caso, marcando l’impegno governativo per l’8 marzo –, inseriti in un quadro politico ideologicamente distante o ostile alle lotte femministe che hanno condotto a formulare le parole stesse del problema che si intende risolvere, non aiutano né queste stesse lotte, né la soluzione del problema.
E allora meglio sarebbe tenersi le parole, difenderne la complessità, preservarne la forza generativa di cambiamento.
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