Giusto in tempo per l’apertura delle borse del lunedì mattina, Ubs ha annunciato che è pronta a comprare Credit Suisse per poco più di 3 miliardi di euro nel tentativo di evitare il collasso definitivo di una banca che è davvero di importanza sistemica, capace di trascinare con sé tutto il sistema finanziario occidentale in caso di un fallimento modello Lehman Brothers nel 2008.

A questa valutazione, Ubs paga le azioni di Credit Suisse 0,76 franchi l’una, mentre il prezzo di chiusura di venerdì era 1,86. Uno sconto che indica quanto grave è la situazione della banca obiettivo.

Si può forse evitare la definitiva perdita di fiducia che trasformerebbe la crisi di liquidità in atto – con la fuga dei depositanti – in una crisi di insolvenza e dunque in un fallimento, ma il capitalismo finanziario svizzero è già morto e sepolto.

L’operazione con Ubs avverà scavalcando completamente l’assemblea dei soci di Credit Suisse (ma anche di Ubs), che vengono così di fatto espropriati (o indennizzati parzialmente invece di perdere tutto, a seconda della prospettiva) per un salvataggio che il governo svizzero e le autorità di vigilanza stanno organizzando in violazione delle leggi, che infatti dovranno modificare.

E con prestiti ponte giganteschi, altri 100 miliardi di franchi di liquidità in aggiunta ai 50 già garantiti dalla banca centrale svizzera. Il fallimento di Silicon Valley Bank inizia a sembrare un piccolo problema a fronte della gestione della crisi di Credit Suisse.

Il vero problema

La grande domanda è: cosa sta succedendo?

Da tanti punti di vista, Credit Suisse era una banca solida. Il Cet1 ratio, una delle misure di solidità patrimoniale usata per la supervisione, nel bilancio appena depositato risulta 14,1 (Unicredit, banca della cui solidità nessuno dubita, è poco sopra, a 15,4).

Gli scandali di Credit Suisse sono ben noti da decenni, la cattiva gestione è stata censurata da tempo, la perdita record da 7,3 miliardi di franchi svizzeri è stata rivelata a inizio febbraio, il deflusso dei depositanti era già in atto ma il crollo di fiducia è avvenuto soltanto pochi giorni fa. Come mai?

C’è una spiegazione inquietante che inizia a farsi strada. Non è una questione di solidità delle banche, ma di tassi di interesse: finché i tassi sono a zero, non c’è problema a lasciare i propri soldi in conti correnti non remunerati.

Le banche ringraziano e usano quei prestiti a breve forniti dai depositanti per offrire finanziamenti a lungo termine a tassi più elevati e guadagnare sulla differenza.

Ma ora che perfino i titoli di stato offrono rendimenti al 3-4 per cento, mentre l’inflazione erode il potere d’acquisto dei soldi lasciati sul conto, chi può inizia a spostarli.

Dalle banche americane sono usciti 700 miliardi di dollari nell’ultimo anno. La Federal Reserve ha iniziato ad alzare i tassi di interesse prima e più rapidamente della Bce, infatti negli Stati Uniti sono ormai al 4,75 per cento contro il 3,5 per cento dell’eurozona.

Se questa spiegazione è giusta, le cattive notizie su una banca scuotono semplicemente i risparmiatori dal loro torpore e li spingono a valutare che stanno tenendo fermi i propri soldi in conti non completamente sicuri e privi di rendimento.

Dunque, al netto delle esigenze immediate di liquidità, iniziano a spostarli altrove. Ma così le banche vacillano.

Se questa è la vera causa di crisi come quella di Credit Suisse, siamo soltanto all’inizio della valanga.

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