L’utilizzo di analogie storiche per cercare di dare senso al presente è una pratica tanto comprensibile, che avviene ovunque e non solo in Gran Bretagna, quanto rischiosa e il più delle volte inconclusiva. Nel Regno Unito si va sempre a pescare nell’immaginario della seconda guerra mondiale, come fosse un supermercato di giustificazioni morali o razionalizzazioni politiche che spiega un po’ tutto, all’indietro e in avanti, dalla battaglia della Somme alla rivolta dei Boxer, dal Thatcherismo alla crisi del partito laburista. E ovviamente, anche la guerra fredda e, soprattutto, il primato della democrazia inglese.

La guerra in Ucraina non poteva sfuggire a questa regola e viene raccontata in queste ore utilizzando tale lente e tutte le sue storture retoriche e ideologiche. Un giro fra le prime pagine dei quotidiani inglesi di questi giorni è una esperienza a metà fra memoria e propaganda della battaglia di Londra.

Ma la storia non è modello rigido e permanente di conoscenze che può essere applicato indistintamente in ogni spazio e tempo. Liquidare pertanto il resuscita attivismo di Boris Johnson di fronte a questa crisi – ultimo in ordine di tempo il viaggio in Polonia di martedì – e la sua evidente smania di trovare un ruolo nei nuovi scenari che si stanno costruendo con la riproposizione dei vecchi schemi della guerra mondiale e fredda ma aggiornati alla teoria imperialista post-globalizzazione, oltre a essere sbagliato non serve proprio a nulla.

L’eco del passato

Certo, Downing street ha alimentato questo gioco: domenica scorsa il ministro degli esteri Lizz Trust ha invitato i cittadini britannici che volessero farlo ad andare a combattere per la “libertà e la democrazia in Ucraina” come se si trattasse di una nuova guerra civile spagnola o della resistenza francese; e qualche giorno prima il ministro della difesa si era spinto a fare riferimenti alla guerra di Crimea, ma quella del 1854 quando per intenderci le truppe piemontesi di Cavour avevano combattuto a fianco dell’allora impero britannico.

Da un certo punto di vista, più adeguata sembrerebbe l’analogia scelta dalla solita sinistra radicale che applica l’episodio della guerra delle Falkland-Malvinas. Come Margaret Thatcher anche Johnson userebbe la crisi per imporre la sua di versioni del populismo autoritario e per far dimenticare gli spiacevoli episodi del party-gate durante il lockdown. Al momento, va detto, non sembra tuttavia funzionare: a fronte di una opinione pubblica compatta nel condannare l’invasione russa, i recenti sondaggi rimangono sfavorevoli a Johnson.

Sgombriamo subito il campo, però, da ogni possibile fraintendimento: accusare il primo ministro inglese di giocare ‘a fare Churchill’ o, a seconda di quale periodo storico si vuole utilizzare, di essere nuovamente il cagnolino degli americani come fu Tony Blair, non elimina il fatto che in questo momento vi sono un aggressore e un aggredito, un invasore e un territorio bombardato, una potenza nucleare e un paese che (inaspettatamente) resiste.

Quello a cui stiamo assistendo lascia sgomenti e ci obbliga a immaginare nuovi schemi e perimetri interpretativi nei quali il ruolo della riflessione storica non è quello di fornire brevetti per la soluzione ma strumenti di analisi per comprendere come si è giunti a una contemporaneità che si riteneva irripetibile – il ritorno effettivo ancorché percepito della guerra classica in Europa – e su come quel passato è stato vissuto, manipolato, risemiotizzato.

In questo quadro l’intreccio fra politica estera e politica interna è inestricabile e se, da un lato, l’attenzione di tutta l’opinione pubblica è rivolta alla dimensione internazionale e a quella che continua a rimanere anche se per distacco o suo malgrado la potenza egemone, gli Stati Uniti, non va dimenticato (e sottovalutato) l’impatto e le conseguenze sulla sfera interna. Qui, la guerra vista da Londra assume una prospettiva diversa.

Effetto Brexit

Come per il campo internazionale è il prisma europeo a fornire una chiave di lettura, anche per la crisi ucraina vista dal Regno Unito è l’Europa, o meglio la sua assenza, a giocare un ruolo importante. Se infatti non è l’ipotesi dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato ad aver innescato l’aggressione russa ma piuttosto, come molti analisti ritengono, quella di un’Ucraina progressivamente integrata in termini economici, politici e culturali in uno spazio euro-atlantico, la necessità di trovare un ruolo internazionale post-Brexit ci aiuta a spiegare il cambio di passo e di tono del primo ministro.

Il contesto è profondamente mutato e il protagonismo britannico va ricompreso in tale quadro: questa è la prima occasione concreta in cui la questione Brexit può essere ‘storicizzata’ sul piano internazionale e ‘dimenticata’ in quello interno.

La guerra ucraina sta ricompattando il fronte euro-americano e sta dando nuovo respiro all’europeismo e all’Ue, che sembra presentarsi in questa occasione come un attore singolo. Un ricompattamento da cui Londra non può essere esclusa sia che il progetto di Putin di ricreare nuove sfere di influenza riesca ad andare in porto, sia che esso venga sconfitto.  

Tutto bene dunque? No. Le contraddizioni sono enormi e avranno un impatto di lungo periodo. Se e quanto le sanzioni economiche destabilizzeranno più la Russia che l’Europa è ancora troppo presto per dirlo; ma anche vista da qui la crisi ucraina offre l’occasione al Regno Unito di porre una qualche forma di limitazione, seppur tardiva e insufficiente e ipocrita, al ruolo che la City ha avuto nel riciclare gli enormi flussi di denaro russo e riposizionarsi in un nuovo scenario, qualsiasi esso sia. E fornisce anche l’occasione al partito conservatore di offuscare, almeno per il momento, i finanziamenti ricevuti dai tanti oligarchi russi che hanno trovato rifugio a Mayfair e Knighsbridge.

Siamo di fronte al ritorno del conservatorismo tradizionale? No. Mentre il primo ministro in conferenza stampa a Varsavia si diletta presentandosi come il leader della madre di tutte le democrazie, il suo ministro degli interni Priti Patel soltanto dopo 6 giorni di guerra e dopo forti critiche ha ceduto e trovato il modo per dare asilo ai profughi ucraini, con congiunti residenti in Inghilterra. Decisamente in ritardo rispetto al resto d’Europa.

Soprattutto, la crisi ucraina ha nuovamente relegato l’opposizione e il partito laburista, che sembrava sulla via di prendersi qualche rivincita, in seconda fila cancellando in un solo colpo, giovedì 24 febbraio, non soltanto il Covid dai titoli dei giornali e il ricordo delle restrizioni dovute alla pandemia che proprio in quel giorno sono state eliminate, ma anche quel poco margine di visibilità che Keir Starmer si era a fatica conquistato dall’inizio dell’anno.

Gli effetti immediati li vedremo a maggio, alle elezioni amministrative. Quelli di lungo periodo, forse, alle prossime elezioni politiche. E anche in questo caso le analogie storiche non aiutano. Starmer ha deciso di insistere sul patriottismo sociale, sostenendo l’attivismo e la retorica umanitaria di Johnson. Ma non è chiaro se stia seguendo l’esempio di Clement Attlee o di Harold Wilson. Di certo, per la sua opposizione interna e non solo, sta giocando a fare ‘Tony Blair’.

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