Non so quanti altri peli i giudici costituzionali troveranno nelle otto uova referendarie sottoposte alla loro attenta e decisiva disamina giuridica. L’inammissibilità del cosiddetto “omicidio del consenziente” è un’enormità.

La maggioranza della Corte non si è lasciata convincere da Giuliano Amato, l’autorevolissimo, per dottrina e storia personale, loro presidente.

Da non esperto, per di più con qualche propensione referendaria, la giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di referendum mi è frequentemente sembrata tenere in smodato conto alcuni criteri politici.

Poi li nobilitava con riferimenti alla necessità di non aprire/acuire scontri, di non mettere a rischio la stabilità politica, già di per sé inferma, di non creare situazioni difficili.

Dall’altro lato, i radicali hanno troppo spesso usato i referendum come raffiche per abrogare la classe politica (eh, sì, qualche striscia populismo nella concezione radicale della democrazia ha spesso fatto capolino). Nella stagione dei referendum elettorali, Giuliano Amato, allora vice-segretario del Psi, usò del suo prestigio di professore di Diritto costituzionale, per denunciarli come “incostituzionalissimi”.  La Corte l’accontentò soltanto in parte, ma consentì all’abrogazione, non della legge nella sua interezza, ma di una o più frasi, con l’esito di una riscrittura del testo e della comparsa di una legge differente da quella che non s’era potuta abrogare. Si affermarono gli esperti del ritaglio.

Rapidamente, alcuni politici, ma anche i cardinali di Santa Romana Chiesa, sapendo che non potevano vincere contando i voti, fecero appello all’astensione per fare fallire i referendum per mancanza di quorum. “Portare” alle urne il 50 per cento più uno degli italiani in epoca di disaffezione, declino dei partiti, polarizzazione politica, è diventato oramai un’impresa disperante.

Triste, però, è vedere materie rilevanti per la vita degli italiani soppresse dal 20-25 per cento di astensionismo aggiuntivo a quello cronico con la sconfitta di quasi la metà dell’elettorato che si è mobilitato per conoscenza e convinzione.

   Di fronte alla divisione, partigianeria e, talvolta, inadeguatezza, non del parlamento, ma dei parlamentari, i referendum abrogativi continuano ad avere la possibilità di adempiere ad alcuni compiti, relativamente impropri, ma utili.

Possono servire soprattutto da stimolo individuando un problema e imponendo un dibattito pubblico in pubblico. Talvolta, fanno opera di supplenza prospettando soluzioni persino in concorrenza con quelle formulate dal governo.

In questa tornata è il caso dei quesiti sull’amministrazione della giustizia sottoposti dalla Lega. L’ultima parola, purché la Corte non soffochi tutto sul nascere, può sempre averla il parlamento anche contro, ma meglio di no, le preferenze espresse dagli elettori referendari. Nelle democrazie parlamentari, il referendum rimane strumento importante, irrinunciabile. Consentirlo anche su materie delicate è opportuno. 

© Riproduzione riservata