In attesa di capire se dobbiamo preoccuparci più di un’inflazione che c’è o di una recessione che potrebbe arrivare, il problema urgente è l’aumento dei prezzi che toglie potere d’acquisto alle famiglie, spinge le banche centrali ad alzare i tassi di interesse e i governi a indebitarsi per interventi fiscali di sostegno.

L’ultimo dato della Bce è che a giugno i prezzi al consumo erano più alti dell’8,6 per cento rispetto a un anno fa. La domanda che si fanno tutti è: quanto durerà?

Le economie con una inflazione alta sono profondamente diverse da quelle con un’inflazione bassa, come spiega il capitolo molto citato di un recente report della Banca dei regolamenti internazionali (Inflation: a look under the hood).

Può sembrare una tautologia, ma non lo è: aumenti dei prezzi ce ne sono sempre, in specifici settori, a volte per picchi di domanda (le mascherine sono più ricercate durante una pandemia), altre per ristrettezze dal lato dell’offerta (una siccità che distrugge certe coltivazioni). Ma questi aumenti non si scaricano sul resto dell’economia, non determinano cioè una spirale al rialzo sia degli altri prezzi che dei salari.

La doppia inflazione

L’inflazione è fatta da due componenti. La prima è quella dei componenti relativi. Immaginiamo una economia in cui si possono comprare soltanto carne o verdure. Un chilo di carne costa come due chili di verdure. Una moria di mucche fa salire il prezzo della carne, per un chilo ora ci vogliono quattro chili di verdure.

Ma c’è anche la componente generale dell’inflazione: se all’inizio un chilo di verdure costa un euro e quindi uno di carne due euro, un’imprevista voracità dei consumatori fa salire il prezzo di entrambe a due euro e quattro euro rispettivamente.

Poi arriva la moria delle vacche che cambia i prezzi relativi, e quindi il prezzo della verdura resta due euro al chilo, ma quello della carne passa a otto euro. Una famiglia che all’inizio consumava un chilo di verdura e uno di carne spendeva due euro, la somma di entrambe le spinte inflazionistiche la porta a spenderne 10.

Nelle economie a bassa inflazione, quelle in cui abbiamo vissuto negli ultimi vent’anni, gli improvvisi cambi dei prezzi relativi non determinano un incremento dell’inflazione generale, cioè si trasmettono poco agli altri settori. Nelle economie con un’alta inflazione strutturale, invece, succede l’opposto.

In un caso la moria delle vacche cambia solo il prezzo relativo con la verdura, nell’altro finisce per far salire tutti i prezzi misurati in euro. Nel gergo degli economisti e del rapporto della Banca dei regolamenti internazionali, nelle economie a bassa inflazione i prezzi sono poco correlati, in quelle ad alta inflazione molto di più.

Per tornare al nostro presente: in economie a bassa inflazione, un aumento del prezzo del gas come quello che abbiamo visto in questi mesi (da 20 euro per megawatt ora a oltre 175) non smuoverebbero più di tanto l’inflazione. Perché l’indice dell’inflazione salirebbe soltanto, pro quota, per la parte energetica. Ma quando i prezzi sono molto correlati, invece, l’aumento si trasmette ad altri settori, con una specie di effetto contagio.

Questione di aspettative

Ma perché le economie ad alta inflazione sono diverse da quelle a bassa inflazione? La spiegazione può essere nelle aspettative: noi stessi, in questi mesi, stiamo imparando che agli aumenti su un fronte (bollette, benzina) presto ne seguiranno altri (ristoranti, alimentari al supermercato, servizi). E quindi se vedessimo il gas passare da 175 euro al megawatt ora a, diciamo, 250, ci aspetteremmo presto ulteriori aumenti.

Chi ne ha l’opportunità, proverebbe a scaricare altrove i rincari: i professionisti potrebbero chiedere tariffe più elevate, i dipendenti aumenti di stipendio, maggiore la capacità di ottenerli, più alto il rischio della spirale tra prezzi e salari.

Come abbiamo imparato a nostre spese negli anni Ottanta, però, formarsi aspettative razionali in economie ad alta inflazione è difficile: per avere un aumento del 2 per cento del reddito disponibile, un lavoratore dovrebbe ottenere un incremento di stipendio di oltre il 10 per cento, visto che l’inflazione annuale è all’8,6. Ma se mentre tratta l’aumento del 10 l’inflazione schizza al 12 per cento, il lavoratore che ottiene l’aumento si sentirà più ricco o soltanto più frustrato? Andrà a festeggiare al ristorante o cancellerà la vacanza prenotata? Difficile prevederlo.

Due cose possono riportare l’ordine: una recessione, cioè una riduzione generalizzata di domanda per tutti i beni e servizi (con il conseguente aumento di disoccupati) oppure un intervento di politica monetaria che cambi le aspettative, cioè riduca la correlazione tra i prezzi dei vari settori (nel nostro caso tra l’energia e gli altri). Entrambi sono possibili, anche probabili, ma non ancora qui. E i prezzi continuano a salire.

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