I Talebani sono terroristi? Per quanto questa fosse la meno rilevante tra le questioni sollevate dall’intervista di Daniela Preziosi a Massimo D’Alema, la domanda ha il merito di condurci dentro uno straordinario paradosso: nella montagna di risoluzioni Onu sfornate in questo ventennio non vi è una sola definizione di “terrorismo”. Con la conseguenza che ciascun governo è libero di decidere chi sia terrorista e chi non lo sia. Questo non è privo di conseguenze.

Nel 2010 l’ultimo esame comparativo di cui si trovi traccia mostrava plateali difformità. Gli Stati Uniti censivano 45 «organizzazioni terroriste», la Gran Bretagna 55, l’Unione europea 29, le Nazioni unite 24, la Russia 16. I Talebani e i Fratelli musulmani erano presenti solo nell’elenco russo, l’Ira solo nel britannico. Hezbollah libanese era nelle liste britannica e statunitense ma non in quelle delle Nazioni unite e della Ue. Il Pkk curdo non era nelle liste delle Nazioni unite e della Russia ma compariva in quelle americana ed europea. Da allora gli elenchi hanno conosciuto integrazioni e modifiche, talvolta dettate da convenienze.

Avendo i guerrieri curdi combattuto coraggiosamente l’Isis insieme all’aviazione americana, il Pkk per Washington non figura più all’inferno. Se stiamo a questo precedente i Talebani, entrati nel frattempo nella lista nera americana, presto ne usciranno, ammesso che terranno a freno i loro macellai e s’impegneranno nella lotta contro l’enigmatico Isis. Le stragi possono essere condonate, il passato consegnato all’oblio: non fosse così, il direttore della Cia non sarebbe volato a Kabul per incontrare i mullah. Il capo dell’antiterrorismo non va a trovare i capi dei terroristi se questi ultimi non appariranno presto in abiti di scena meno imbarazzanti.

Classificazione fluida

La fluidità nella classificazioni delle organizzazioni armate è amorale ma diventa indispensabile quando è necessario avviare un negoziato con i fino-a-ieri terroristi (sicché è possibile che Hamas presto non puzzerà più di zolfo). A una definizione rigida e vincolante di “terrorismo” sono di ostacolo anche i timori che vi ricadano sia freedom fighters e insurgents, cioè ribelli per una causa legittima, sia stati. Questo è un punto cruciale. Vuole un consenso quasi generale nelle Nazioni unite che i terroristi siano unicamente “non-state actors”: condotte tipiche del terrorismo messe in atto da stati ricadrebbero nella fattispecie dei crimini di guerra e come tali sarebbero puniti.

In realtà questo non accade. L’istituzione che può procedere per crimini di guerra – la Corte penale internazionale – ha enormi difficoltà a esercitare la giurisdizione, non essendo riconosciuta da una miriade di nazioni, incluse Usa, Russia, Cina. Di fatto la stato “terrorista” non viene punito. L’impunità è la premessa di uno scambio nefasto: qualsiasi autocrazia offra supporto prezioso alla war on terror potrà contare sull’omertà dei governi occidentali se opprimerà ancor più duramente la popolazione e il dissenso. In stati centroasiatici o mediorientali ormai è sufficiente possedere una rivista che critica il potere per essere incolpati di “estremismo” filo-terrorista (il «terrorismo motivato da estremismo», formula bizzarra, è nella risoluzione del Consiglio di sicurezza che inaugurò la war on terror, la 1373 del 28 settembre 2001).

Mentre dichiaravamo l’intenzione di esportare la democrazia, in Afghanistan ci siamo affidati a milizie agganciate all’esercito che non erano molto migliori dei terroristi cui esse davano la caccia; e ovunque nel mondo i regimi nostri associati possono incrudelire sui propri sudditi senza per questo vedersi negato l’accesso ad aiuti e prestiti internazionali.

Ci è convenuto? In questi vent’anni c’è stato un unico attentato negli Stati Uniti, peraltro con poche vittime. Agli europei è andata peggio (massacri a Parigi, Londra, Madrid) ma nel complesso si potrebbe concludere che le crudezze della war on terror abbiano protetto anche loro. Se però il bilancio fosse tutto qua non capiremmo perché, per esempio, Foreign Affairs proponga una lotta al terrorismo «più intelligente». Forse dovremmo cominciare a domandarci, per esempio, cosa percepiscano della nostra war on terror i 200 milioni di arabi che hanno meno di 30 anni e, stando a recenti indagini della Pew, vivono l’islam con meno partecipazione che in passato.

Fossimo in grado, potremmo favorire il successo di una nuova Grande Idea che contenga, per esempio, la ripulsa di al Qaeda. Ma prima dovremmo chiarirci che cosa intendiamo per terrorismo, questione più complessa di quanto ci appaia. Al Cairo tre anni fa sono stati arrestati e impiccati i giovanissimi del gruppo “Resistenza popolare” che avevano fatto saltare in aria il procuratore generale Barakat.

Gli europei non mossero un dito per salvarli: che diamine, terroristi! Ma Barakat era il dignitario di un regime golpista che intimidisce la popolazione e colpisce il dissenso con la violenza sregolata e omicida che distingue i terroristi. Dunque chi praticava il terrorismo, gli assassini o l’assassinato? La “Resistenza” o lo stato egiziano nella persona di un sodale di al Sisi? E poiché è probabile che al Sisi produca con i suoi metodi molto più fondamentalismo armato di quanto non ne distrugga, potremmo porci un dubbio invero disdicevole: e se aiutare i dinamitardi di “Resistenza” fosse molto più conveniente alla nostra sicurezza di quanto non sia continuare ad aiutare con discrezione la dittatura, come ci consigliano tra le righe i soliti bardi della war on terror?

 

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