Silvio Berlusconi contro Achille Occhetto, contro Romano Prodi che lo sconfisse due volte, e poi Walter Veltroni, Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi. Francesco Rutelli fu snobbato. Non sempre scontri di civiltà, ma confronti tra capi coalizione, partiti e visioni alternative. Diversi dai dibattiti campali tra De Gaulle e Mitterrand o Nixon e Kennedy, ma comunque duelli tra personalità e leader. Che esprimono il precipitato di proposte se non dicotomiche e con varia intensità di distanza, ma comunque differenti. 

Molto fiato e deboli ricerche sprecate per sproloquiare su un non meglio definito concetto di personalizzazione della politica. Un neologismo accattivante, utile a spiegare che ci si occupa di politica all’anziana nonna convinta che non si abbia un mestiere concreto. 

Una storia non recente. Basti pensare a De Gasperi e Togliatti, Berlinguer e Moro, Craxi e Andreotti, Pannella e Almirante.

La leadership ha segnato la politica italiana anche prima dei talk-show, dei social network e persino della tv. Antecedente il finto sistema elettorale maggioritario, che mai fu. 

Dal leader all’oligarchia

Il passaggio dal sistema elettorale proporzionale a quello misto/maggioritario nel 1993 illuse molti circa la centralità dei candidati. Che in realtà c’era proprio, anche, con il modello precedente, ossia con il voto di preferenza, tanto che la battaglia era tra uomini di partito, nello stesso partito.

Nei tre quarti di seggi uninominali tra il 1994 e il 2001 la quota di elettori che basava la propria scelta in base alle caratteristiche personali del candidato nel collegio si aggirava attorno al 15 per cento, con una leggera crescita nel tempo.

In qualche misura elettori e partiti stavano apprendendo le regole del gioco, evitando di avanzare proposte scriteriate senza considerare le qualità degli aspiranti parlamentari.

Le successive modifiche hanno riportato la centralità della scelta nelle mani dell’oligarchia partitica spesso però costretta a negoziare con consorterie familiste, specie al sud, ma non solo. 

Personalismi senza personalità

Oggi non vi è traccia della rilevanza dei candidati, se non sporadica. Giorgia Meloni ed Enrico Letta sono leader loro malgrado, avendo il secondo un partito correntizio da gestire, e la prima un gruppo silente di seguaci pronto a defenestrare la capa appena cambiasse il vento dei risultati.

In un contesto senza leader, con qualche capo, e l’abuso distorto del concetto di carisma. Coalizioni in competizione tra loro, ma forse soprattutto al proprio interno, dal bipolarismo all’intra-polarismo, in assenza di un nemico comune esterno.

I collegi uninominali sono pre-destinati e pochi, per cui sono snobbati, mentre avrebbero dovuto rappresentare il meglio e le punte di diamante dei partiti. 

Il voto di preferenza, in tutte le sue componenti, come detto, personalizzava. Dal 2018 il voto partitico, seppur in liste corte dissuade dall’attenzione per il curriculum e in ogni caso la scheda unica unita all’impraticabilità del voto disgiunto vanifica l’attenzione per capilista ed eleggibili, con elettori indotti a scegliere un’offerta complessiva.

Tuttavia, sebbene in forma residuale, il 25 settembre gli elettori potrebbero usare i candidati all’uninominale quale scorciatoia cognitiva per decidere quale partito votare. In ultima istanza chi. Con una grande differenza rispetto al passato recente.

Identità fragili

Nella crescente fase del voto negativo, la presenza di candidati invisi può generare effetti deleteri sulla prestazione del partito di affiliazione. Candidati con profili improbabili, che svaniscono al primo vento, inconcludenti, con poche e confuse idee, fungono da sfollagente elettorale con grave nocumento per le coalizioni che li propongono. 

In un frangente di identità e appartenenze politiche deboli, la volatilità è mossa prevalentemente da sentimenti antagonisti e attitudini negative; verso i governi in carica, ma anche nei confronti di chi è percepito come élite. 

La personalizzazione è solo una componente, spesso enfatizzata, della politica. Tuttavia, per concomitanti fattori, la facce e le storie locali conteranno molto nelle prossime consultazioni elettorali.

Il viso dei 144 collegi uninominali si riverberà sulle sorti dei rimanenti 256 aspiranti deputati (analogamente al Senato) e dunque sulle sorti della maggioranza parlamentare e sul governo. Un errore esiziale trascurare i volti che si trasformano in voti.

In passato, come recita un adagio britannico, gli elettori avrebbero votato anche ‘un maiale’, purché fosse stato un maiale del ‘mio partito’, oggi non è più così.

© Riproduzione riservata