Il ministro Renato Brunetta ha presentato al pubblico “Ri-formare la Pa. Persone qualificate per qualificare il paese”, il Piano strategico per la valorizzazione e lo sviluppo del capitale umano della pubblica amministrazione. Un programma straordinario di aggiornamento rivolto ai 3,2 milioni di dipendenti pubblici. Uno dei due filoni del piano è rivolto a fornire le competenze digitali previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza.

L’iniziativa sarebbe encomiabile, se avesse una strategia visionabile, verificabile, controllabile e soprattutto sostenibile. Ma per la sostenibilità dell’iniziativa ci si affida a progetti proposti da aziende private che mettano a disposizione, a titolo gratuito, contenuti formativi coerenti con gli obiettivi del Piano e, in particolare, con il modello di competenze digitali definito nel cosiddetto “Syllabus”, rispondendo a un bando con scadenza molto ravvicinata (31 gennaio).

Hanno subito dichiarato di aderire all’iniziativa aziende private a capitale straniero, quali Tim e Microsoft, proponendo “percorsi formativi” su cui sono “impegnati da anni”.

Si può quindi presumere che verranno riciclati i corsi di formazione su tecnologie e prodotti che le stesse aziende vendono e le pubbliche amministrazioni acquistano e usano.

Il vantaggio per i privati

Cosa ci guadagnano le aziende in cambio ad offrire corsi gratuiti? La diffusione all’interno della Pa della conoscenza dei loro prodotti commerciali e di conseguenza un ulteriore lock in su quei prodotti, al cui utilizzo i funzionari pubblici saranno ammaestrati, restando all’oscuro di soluzioni alternative, in particolare quelle provenienti dalla comunità open source.

Un secondo limite dell’iniziativa, è la mancanza di un sostegno durevole non solo alla transizione digitale, ma anche al dopo transizione, quando la Pa dovrà sopravvivere all’interno di un mondo tecnologico in continua evoluzione.

Durante e dopo la transizione digitale, i dipendenti pubblici dovranno continuare a interagire con sistemi digitali, e quindi la formazione dovrà essere continua.

Pertanto, occorrerebbe che la formazione digitale fosse offerta all’interno di una apposita scuola di formazione digitale della Pa, stabile e duratura.

Inoltre andrebbe formata una parte del personale dirigenziale su competenze informatiche di più alto livello rispetto a quelle indicate nel Syllabus. Tali dirigenti dovrebbero avere conoscenze più approfondite dei sistemi informatici e delle loro potenzialità tecnologiche, al fine di riuscire a concepire i requisiti per servizi innovativi da erogare, indirizzandone la progettazione e la realizzazione, anziché lasciarsi solo guidare tra le scelte di prodotti commerciali esistenti, non sempre facilmente adattabili alle esigenze della Pa.

Questo consentirebbe di instaurare un dialogo proficuo tra la Pa e organismi pubblici quali Agid o Sogei, incaricati di trasformare le esigenze di elaborazioni informatiche in protocolli o specifiche di servizi che offrano, ad esempio, nuove modalità di interazione tra amministrazioni e cittadini, nuovi servizi e soluzioni integrate, più semplici e più efficienti.

Sarebbe bene quindi allargare la visione del piano, prevedendo che la formazione digitale sia volta a fornire una preparazione sul cosiddetto pensiero computazionale, che il professore Enrico Nardelli e il professore Giorgio Ventre propugnano da anni come materia obbligatoria nelle scuole secondarie, e che va oltre le conoscenze spicciole sull’uso di strumenti informatici di base.

La conoscenza del pensiero computazionale consentirebbe al personale di emanciparsi da un atteggiamento di subordinazione e sottomissione alla tecnologia, imparando a padroneggiarla.

© Riproduzione riservata