Ricorre oggi il centoventesimo compleanno di Piero Gobetti (in quest’anno ricorre anche il sessantesimo anniversario del Centro torinese che porta il suo nome e che ha sede nella sua casa), il giovane intellettuale che ancora liceale fu protagonista della più radicale e innovativa impresa politico-culturale italiana.

La rivista Rivoluzione liberale (nata nel 1922 e chiusa nel 1925 per ordine del regime fascista) fu la più celebre ma non la sola delle sue creazioni, tra le quali una casa editrice che nel 1925 pubblicò La libertà di J.S. Mill con introduzione di Luigi Einaudi.

Cosa c’entra con Salvini

Alla “rivoluzione liberale” Matteo Salvini ha recentemente detto di ispirarsi, con un esercizio fantastico di superficialità dell’orecchiare senza leggere. Nulla di più distante dal leghismo. Gobetti morì nel 1926 a soli 25 anni, in seguito alle percosse fasciste, vittima dell’intolleranza contro la quale si era sempre espresso e battuto.

In carrozza verso Parigi dove pensava di trovare rifugio, salutò la sua Torino con una struggente confessione di appartenenza: «Io sento che i miei avi hanno avuto questo destino di sofferenza, di umiltà: sono stati incatenati a questa terra che maledirono e che pure fu la loro ultima tenerezza e debolezza. Non si può essere spaesati».

Se la si osserva dal nostro tempo, il liberalismo è senza dubbio una storia di successo, compiaciuto e gratificato da un destino irresistibile al punto di proporsi come modello meta-storico per tutti i popoli della terra. Ma che cosa succede se offriamo un resoconto dell’esperienza liberale dal punto di vista della sua caduta, o meglio ancora di un paese nel quale esso non ha avuto una storia lineare né un’ascesa irresistibile?

Il lavoro teorico e politico di Gobetti è la testimonianza di un liberalismo consapevole del proprio declino imminente. La ragione scatenante di questa consapevolezza fu l’avvento e il successo del fascismo, che nel 1925 divenne dittatura e perseguitò, represse ed eliminò gli avversari politici, e quindi anche Gobetti.

In Italia, il liberalismo acquisì la consapevolezza del proprio valore a partire dalla percezione di essere impedito nel proprio compimento. Come si spiega questo suo fallimento? Su quali principî mettere maggiormente l’accento per dimostrarne il valore e la validità? Quali strategie teoriche e risorse ideali possono scongiurare la minaccia della sconfitta e quali cementano il consenso nella società e nello stato? Queste sono le domande che sorgono leggendo i saggi di Gobetti, il primo documento italiano di un liberalismo militante e consapevole della propria debolezza egemonica.

Le opere di Gobetti, con la loro sferzante critica della cultura politica e morale italiana, rivelano una lucida comprensione del nesso tra istituzioni liberali e mondo etico; sottolineano il ruolo antiliberale svolto in Italia dal cattolicesimo controriformatore e l’indifferenza da esso incoraggiata nei confronti dello stato; infine, denunciano il rischio alla libertà esercitato dal corporativismo e dal conformismo fascista.

Il liberalismo di Gobetti rinvia non soltanto ad un sistema istituzionale e politico, ma ancor prima ad una concezione della vita ispirata ai principî dell’autonomia morale individuale e della libertà politica ed economica. Almeno tre sono le sue componenti essenziali.

I tre pilastri

In primo luogo, esso si presenta come una filosofia immanente e “storicista” che considera la condizione umana come possibilità e ricerca; un liberalismo consapevole delle radici sociali e culturali a cui attinge e che non si avvale di giustificazioni che trascendano la razionalità, la volontà e la prassi degli individui; che, per questo, non aspira ad una purezza dottrinale ma accetta la contaminazione con altre tradizioni politiche, per esempio il repubblicanesimo e il socialismo.

In secondo luogo, sul versante economico le idee di Gobetti si incardinano sul riconoscimento e l’accettazione del mercato e della competizione; i principi dell’intraprendenza e della lotta al monopolio sono un elemento costitutivo di quella che egli chiamava «modernità», incarnando al tempo stesso la morale della responsabilità individuale e del rischio economico.

Gobetti non proponeva un’identificazione deterministica del liberalismo con il capitalismo. Riconosceva che il liberalismo è nato insieme alla defeudalizzazione dei rapporti economici e sociali e come controprova portava l’esempio dell’Italia, dove, se il liberalismo economico stentava a mettere solide radici era anche a causa della struttura socio-economica essenzialmente corporativa e non competitiva.

Gobetti vedeva nella politica protezionistica una perversa tattica classista di stampo oligarchico, un mezzo grazie al quale «pochi fortunati» miravano a proteggere i loro privilegi a scapito di «tutta la nazione» e a mettersi al riparo dai rischi della competizione.

Diversamente da altri liberisti, Gobetti non circoscriveva al mercato e allo scambio i benefici della competizione, ma li estendeva anche alle relazioni sociali. Considerava il conflitto sociale tra i detentori del capitale e i detentori della forza lavoro non solo inevitabile ma realmente positivo, perché costringeva la dirigenza economica a ricercare incessantemente l’innovazione tecnologica e manageriale. Di conseguenza, il liberalismo era per lui l’alternativa più radicale sia al corporativismo sia al socialismo di stato.

In terzo luogo, sotto l’aspetto politico, il liberalismo di Gobetti si incardinava sul principio della tolleranza e difendeva la dottrina del muro tra la chiesa e lo stato. Non gli sfuggiva però che la tolleranza aveva un significato e implicazioni complesse. Colse anzi l’ambiguità dell’interpretazione liberale classica, in cui la tolleranza sembrava fondersi con l’indifferenza e la promozione di un atteggiamento di distacco razionalista dalle fedi, religiose o politiche.

Non solo mercato

Gobetti mise in evidenza l’ambiguità dei confini che separano la tolleranza dall’intolleranza, sia in rapporto all’esercizio della libertà politica sia in rapporto al pluralismo. E fu capace di intransigenza. Se si considera il pluralismo dal punto di vista dell’individuo, si può affermare che esso implica il riconoscimento del fatto che non siamo disposti a rinunciare a cuor leggero a, o a scendere facilmente a compromesso sui principi e i valori nei quali crediamo.

Valori e principi sono diversi dagli interessi e diverso è il loro impatto sulla politica. Gli interessi sono più disposti alla transazione e al compromesso, mentre dal pluralismo dei valori può germinare il conflitto, non semplicemente il dissenso. La politica pertiene essenzialmente alla manifestazione e regolazione del conflitto e, in questo senso, il suo è un mondo di valori, non solo di interessi. Su questo, la sua opposizione al fascismo era radicale e segnata da una dimensione tragica che non consentiva di condividere uno stesso spazio politico. Gobetti fu uno spaesato in patria prima di diventare un esule.

© Riproduzione riservata