È un fatto, siamo inondati di plastica. Quasi tutto il cibo che acquistiamo al supermercato è confezionato, spesso a sproposito. È difficile, ad esempio, capire il senso di vendere (e acquistare!) un mandarino sbucciato e confezionato in una vaschetta di plastica e avvolto in una pellicola naturalmente in plastica.

Non capisco davvero il perché dobbiamo sostituirci alla natura anche in questo, nel confezionamento, sebbene quest’ultima abbia spesso trovato soluzione ingegnose. Pensate all’ananas, al melone, al mandarino appunto. Frutti già dotati di una confezione naturale (la buccia) che, però, il mercato alimentare ha deciso di sostituire con un involucro artificiale. Spesso anche con due.

Si dirà “È più comodo”, e alle volte è vero, si risparmia tempo a casa, dove l’insalata va soltanto condita.  E su questo insistono le strategie dei principali attori del settore, che hanno intercettato il moderno bisogno di non indulgere troppo in cucina. Non a caso, già qualche anno fa una pubblicità delle insalate in busta puntava sullo slogan “Si vende tempo libero”.

Questa comodità, però, non è un fattore neutro, ma alimenta un settore, quello della plastica, che continua a crescere incrementando inquinamento, crisi climatica e, non ultimo, inondando gli ecosistemi marini e quelli terresti di polimeri dannosi. Per dare un numero, secondo il Plastic Waste Marker Index, nel 2021 sono state prodotte 6 milioni di tonnellate di plastica in più rispetto all’anno precedente.

Frutta e verdura confezionate, peraltro, costano molto di più. L’insalata in busta, ad esempio, costa il 300 per cento rispetto al normale cespo venduto sugli scaffali del fresco oppure al mercato. Cioè, quell’insalata che troviamo sempre più spesso già lavata, asciugata, tagliata, quel lattughino che a volte è confezionato persino con le monoporzioni per il condimento (sale, olio e aceto), costa anche 10 euro al chilo. L’inflazione a doppia cifra con cui stiamo facendo i conti e che è ancora più alta per i generi alimentari, dovrebbe spingerci a prediligere il tradizionale cespo di insalata.

Eppure, dopo gli anni della pandemia, il settore della IV gamma – è così che si chiama tecnicamente il prodotto fresco lavato e confezionato – consolida la propria crescita e macina profitti. Nel primo semestre del 2022, ad esempio, con un fatturato di 467,3 milioni di euro, ha fatto registrare una crescita del +5,9 per cento rispetto allo stesso periodo del 2021.

Agli imprenditori del settore – insieme alla Grande distribuzione organizzata – va riconosciuto il merito di aver trasformato un prodotto povero come la rucola, che una volta si raccoglieva ai margini dei campi, dove cresceva spontaneamente, in un gioiello da vendere a dieci euro al chilo e da esportare in tutta Europa. Ma le criticità sono enormi.

Quando con l’associazione Terra! le abbiamo raccontate c’è stata una levata di scudi tra gli addetti ai lavori, che hanno usato i toni sprezzanti di chi non ha moltissimi argomenti (alcuni ci hanno definito “ambientalisti da salotto” con una terminologia che tanto piace alla destra). Eppure, tanto per fare un esempio, è un fatto incontrovertibile che i 7mila ettari di serre della Piana del Sele, in Campania, dove si produce una buona parte della IV gamma, abbiano contribuito a impermeabilizzare il suolo e a deturpare un territorio.

E con un tasso di consumo di suolo di 70 chilometri all’anno, questo dato dovrebbe impensierire. Così come non si può tacere del fatto che si tratti di un settore fortemente energivoro: gli enormi capannoni, le celle frigorifero, l’acqua di lavaggio, sono tutti elementi che hanno un costo enorme in termini energetici e ambientali.

È vero, è comodo: rientrati a casa, non dobbiamo far altro che aprire la busta, riversare il contenuto in una ciotola e condirlo. Ma subito dopo cosa faremo? Getteremo busta e vaschetta nella spazzatura, quando va bene nella differenziata.

Il prezzo spropositato che paghiamo per la nostra insalata probabilmente vale il nostro tempo risparmiato, ma è certo che quel prezzo non va a coprire le esternalità negative, cioè gli impatti ambientali e sanitari della filiera. Anzi, le accentua. E la tendenza appare inarrestabile.

La domanda è, ne vale davvero la pena?

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