Immaginiamo, per analogia, il direttore della Cia che in un ristorante di Washington incontra il segretario di Stato, che incidentalmente è anche il capocorrente di un partito in crisi ed è in piena campagna per conquistarne la leadership. Il nome del capo della Cia, giusto pochi giorni prima, è stato citato pubblicamente nel dibattito per una futura candidatura presidenziale, senza smentite da parte dell’interessato.

L’occasione dell’incontro non è la discussione di un dossier di sicurezza internazionale che interessa l’agenzia e il dipartimento di Stato, cosa che potrebbe avvenire, seguendo i protocolli e rispettando le catene di comando, a Foggy Bottom, a Langley o eventualmente nella Situation Room.

Gli interlocutori non fanno mistero del faccia a faccia a tavola. Anzi, il portavoce del segretario pubblica fotografie dei due, il direttore della Cia ringrazia per «l’amicizia solida» e ne loda la «lealtà», l’altro ricambia a suon di «profonda stima» e s’inchina per la «piacevole chiacchierata», avvenuta in un’atmosfera di massima professionalità e immenso attaccamento alle istituzioni. Una scena inverosimile? Ecco, appunto.

L’incontro tra Di Maio e Belloni

Se si trasporta l’incontro fra il vertice del Dis, Elisabetta Belloni, e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, al di fuori dei nostri confini l’anomalia risalta più chiaramente. I commenti si sono concentrati soprattutto sulle ricadute politiche della vicenda, visto che Di Maio ora sfida Giuseppe Conte per guidare quel che resta del Movimento 5 stelle e il nome di Belloni è stato fatto (“dato in pasto”, in banalese) proprio da Conte (e non solo) durante i giorni convulsi dell’elezione del presidente della Repubblica.

Difficile dunque non leggere il fatto alla luce degli immediati antefatti, ma stringendo così tanto l’inquadratura sulle beghe partitiche si rischia di non vedere la bizzarria generale di una circostanza che, nell’ipotesi più benevola, è la madre di tutte le scelte istituzionalmente sbagliate. Matteo Salvini, anche lui coinvolto a qualche titolo nel tentativo di candidare Belloni al Quirinale, dice che lui non giudica i pranzi degli altri, facendo capire cioè che il punto della vicenda, secondo lui, è quello che Di Maio e Belloni si sono detti o non detti, cosa che invece è irrilevante. Potrebbero aver parlato di astrofisica o di Sanremo.

L’incontro

Il problema è l’incontro stesso, un evento di carattere privato ma con esposizione pubblica che coinvolge un ministro e un alto funzionario dello stato che guida l’intelligence, che in virtù dei loro ruoli dovrebbero rispettare protocolli, procedure, liturgie istituzionali scritte e non scritte che garantiscono ai cittadini che stiano facendo il proprio lavoro in modo indipendente ed entro limiti chiaramente stabiliti.

Confidiamo che i due dispongano di canali più discreti per comunicare privatamente, se lo desiderano. Perché invece il vertice dei servizi segreti incontra un ministro in una circostanza che evidentemente esula da qualunque contesto istituzionale?

Come avrebbe reagito la politica e l’opinione pubblica se gli omologhi americani di Di Maio e Belloni si fossero fatti vedere in un ristorante della capitale americana? Queste sono le domande più importanti, non quanto un’amichevole carbonara combinata con il post di Beppe Grillo influisca sulle quotazioni interne di Conte.

Il Copasir, il comitato parlamentare che controlla l’operato dei servizi segreti, ha annunciato che la settimana prossima i due saranno ascoltati in aula, ma i membri si sono affrettati a specificare che l’audizione era programmata da tempo, la storia del pranzo non c’entra proprio nulla.

Perché tanta cautela? Una vicenda irrituale suscita domande legittime di carattere istituzionale, a prescindere da tutte le elucubrazioni fantapolitiche che si possono fare sui contenuti della conversazione. Anche questa anomalia è l’eredità di un’elezione costellata da storture e sgrammaticature, fra cui anche l’improvvido lancio del nome della capa dei servizi segreti, seguita da una sonora assenza di dichiarazioni di indisponibilità.

Una postilla. Per sostenere che candidare il vertice dei servizi segreti alla presidenza è perfettamente normale si è molto citato nei giorni scorsi il caso di George H.W. Bush, che è stato capo della Cia e poi presidente. L’analogia dovrebbe apparire senza senso per chiunque ricordi le circostanze in cui Bush è stato chiamato da Gerald Ford a dirigere l’agenzia dopo i disastri combinati da Nixon. Senza contare che Bush è diventato presidente esattamente dieci anni dopo aver avuto quell’incarico. Nel suo anno a capo dell’agenzia, comunque, non si ricorda un pranzo con l’equivalente americano di Di Maio, ammesso che ne esista uno.

 

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