Nel 2013 Ignazio Marino vinse le primarie per la candidatura a sindaco di Roma con 48mila voti, davanti a David Sassoli (oggi presidente del parlamento europeo) con 27mila voti e Paolo Gentiloni (poi presidente del Consiglio e oggi commissario europeo) con 10mila. L’ex ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha vinto le primarie di domenica scorsa, in cui era l’unico candidato vero, con 28mila voti. Gli elettori della capitale sono in fuga. Appaiono incapaci di esprimere una preferenza tra i candidati in pista per il Campidoglio (Virginia Raggi, Carlo Calenda, Gualtieri) e si coglie in giro il proposito sempre più esteso di non andare a votare. Il comune che riunisce il cinque per cento della popolazione italiana soffre di mali antichi, primo tra i quali l'alto tasso di corruzione del ceto politico e dei pubblici funzionari, e la politica continua a trastullarsi parlando d’altro, più che altro di schieramenti, alleanze, “campi”, misteriosi dialoghi.

In questo scenario l’ex assessore all’Urbanistica Roberto Morassut (Pd) ripropone (su Domani del 25 giugno) come modello un’età dell’oro dell’amministrazione capitolina rappresentata dai sindaci Francesco Rutelli (1993-2001) e Walter Veltroni (2001-2008), interrotta, non si sa come e perché, dall’elezione del neofascista Gianni Alemanno (2008-2013). E poi definitivamente affossata dai tre anni del sindaco Ignazio Marino, dipinto come una specie di idiota in quanto «non aveva saputo o voluto farsi carico di fare politica ma era rimasto abbarbicato a uno stigma, il marziano, che lo rendeva astratto e a volte solitario».

Ma anche Morassut come marziano non scherza. Con la differenza che il “marziano a Roma” di Ennio Flaiano, nulla sapendo, chiedeva. Invece Morassut che sa tutto, ma proprio tutto, come testimonia una carriera politica senza flessioni, racconta una storia talmente fantasiosa da fastornare il già confuso elettore romano.

Dell’età dell’oro ricorda solo la capacità di prendere Roma e «collocarla in una prospettiva europea». Nulla di più concreto, se non sottolineare con fierezza che il suo mentore Goffredo Bettini, inventore della candidatura di Rutelli, con «Veltroni sindaco si è dedicato alla costruzione dell’Auditorium e alla Festa del cinema». Auditorium e Festa del cinema potrebbero giustamente inorgoglire una città svizzera di 30 mila abitanti, non una capitale europea di 3 milioni di persone che ogni giorno non sanno come mandare i figli a scuola e dove buttare il sacchetto della spazzatura. Ma loro, «classe dirigente diffusa di donne e uomini di cui mi onoro di aver fatto parte», non si occupavano di far funzionare i trasporti e la nettezza urbana ma di insidiare il primato della rassegna veneziana nel cinema. E non si occupavano di far funzionare la metropolitana ma di assegnare il mega appalto per la Metro C che ancora, dopo 15 anni non è costruita, però ha già prodotto danni erariali per centinaia di milioni.

Morassut di questo non parla e così ci racconta che, inspiegabilmente, dopo 15 anni meravigliosi in cui la città era perfettamente pulita e autobus e metropolitane spaccavano il minuto, i cittadini romani si sono precipitati a eleggere sindaco il neofascista Gianni Alemanno. Questa per Morassut è stata una vittoria di Veltroni e «la conferma del giudizio popolare positivo sul suo operato da sindaco». Infatti il Pd, mettendo in campo il fondatore dell'età dell'oro, Rutelli, ha preso un sacco di voti. Alemanno ne ha presi di più, ma questo è un dettaglio.

Se questi ragionano tutti così, la strada verso nuove disfatte sembra spianata. Dovrebbero solo sperare che gli elettori della capitale non ricordino qualche fatto omesso da Morassut nella sua ricostruzione proiettata verso una «transizione eco-digitale che metta al centro un modello di gestione dei rifiuti, di trasporto pubblico e di rigenerazione urbana, umano e sostenibile». Nel 2008 la giunta Veltroni, di cui Morassut si onora di aver fatto parte, ha lasciato in eredità ai cittadini romani e italiani debiti per circa 12 miliardi di euro, anche se nessuno è mai riuscito a contarli con precisione. Il neo eletto governo Berlusconi dovette fare una legge per togliere il peso dei debiti all'amministrazione capitolina, che ne sarebbe rimasta schiacciata, e accollarli agli italiani. Da allora, ogni anno i contribuenti romani pagano un'addizionale Irpef di 200 milioni di euro per ripianare i debiti lasciati da Veltroni, anche se creati anche dalle amministrazioni precedenti. Però nessuno è mai riuscito a farsi dire quanti debiti hanno fatto le diverse amministrazioni: il debito di Roma è per la politica il dodicesimo segreto di Fatima, la vergogna indicibile. E Morassut disciplinatamente non ne parla.

Non parla neppure del suo capolavoro, il nuovo piano regolatore approvato con un colpo di mano la sera prima della fine della legislatura, nel 2008, che ha fatto gli interessi dei palazzinari in modo così sfacciato (gli piacciono tanto da fargli dire «dobbiamo abolire la parola palazzinari») da consentire la nascita nelle periferie di inferni urbani i cui abitanti oggi non voterebbero Pd neppure sotto tortura. Morassut non ne parla più da quando querelò Report per un'inchiesta di Paolo Mondani sui disastri del piano regolatore, giudicandola offensiva e diffamatoria nonché zeppa di notizie false. La querela fu archiviata con un dispositivo sadicamente dettagliato, scandalo per scandalo, devastazione per devastazione: Mondani, accertarono i giudici, aveva detto solo la verità. Perciò da più di dieci anni Morassut parla d'altro, fingendo di essere appena sbarcato da Marte con nuove teorie eco-digitali e rischiando di confondere sempre di più le idee agli elettori romani.

© Riproduzione riservata