«Non è il momento di fare scioperi. I soldi nelle tasche dei lavoratori vanno messi ma in modo intelligente». Pugilisticamente parlando, il presidente della Confindustria Carlo Bonomi ha messo a segno ieri, all'assemblea degli industriali di Milano, un uno-due da lasciare senza fiato. Che siano le imprese a decidere quando i loro dipendenti possano o debbano scioperare, e il modo intelligente di pagarli denota una concezione del conflitto sociale lievemente arrogante.

Purtroppo, in un momento drammatico per l'Italia e tragico per l'economia, la Confindustria si è data come leader un personaggio non migliore della classe politica. Un imprenditore che dice di dover salvare l'industria italiana dalla pandemia, dalla stupidità dei governanti e dall'avidità dei lavoratori. Ma che, come ha rivelato l'Espresso domenica scorsa, trova il tempo di farsi nominare presidente della Borsa di Milano, società quotata a controllo pubblico, per una congrua retribuzione di 107 mila euro l'anno.

Quando sale sul palco recita la parte dell'industriale costretto a lottare per sopravvivere contro la burocrazia, la politica imbelle e i sindacati irresponsabili. Quando scende dal palco si infila dietro le quinte a farsi assegnare il rassicurante mega stipendio pubblico.

Una cosa seria

Ci sarebbe da sorridere, amaramente, se non fosse in gioco il futuro dell'economia italiana. C'è in ballo il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, un milione e 400 mila lavoratori che devono vivere con un quarto di quello che Bonomi prende col suo secondo lavoro in Fiera. I loro sindacati hanno chiesto un aumento medio sui 150 euro lordi al mese, gli industriali ne hanno offerti 40.

I sindacati hanno proclamato uno sciopero per il prossimo 5 novembre, giusto per avere il tempo di vedere se si rappezza la trattativa. Bonomi, conciliante, li aggredisce dando loro degli irresponsabili. «Di tutto abbiamo bisogno fuorché di scioperi», ha ribadito ieri, evidentemente non sapendo che, se lo sciopero facesse comodo al padrone, i lavoratori, dispettosi come sono, non lo farebbero.

Vista la complessità della situazione, il vero irresponsabile è proprio Bonomi. La crisi provocata dal Covid è in buona parte crisi della domanda, la gente non compra più. La questione salariale è centrale e non si può liquidare spiegando ai propri dipendenti, come fossero dei deficienti, che i padroni non si possono permettere di pagarli di più.

Da circa 150 anni, senza che la notizia sia arrivata a Bonomi e ai suoi sponsor, l'Occidente capitalistico ha capito che se i salari possono o non possono crescere non lo decidono le imprese ma le trattative tra lavoratori e parte datoriale. Si chiama conflitto sociale e l'unico modo per eliminarlo l'Europa l'ha sperimentato negli anni Venti e Trenta con risultati non entusiasmanti.

Bonomi invece è convinto che sia quello il paradiso della pace sociale, un mondo in cui i lavoratori devono chiedere il permesso al padrone per scioperare ma il presidente della Confindustria bolla come odiosa limitazione della sua libertà il blocco dei licenziamenti deciso dal governo Conte. Infatti ha già detto, il conciliante Bonomi, che i suoi colleghi industriali (lui per fortuna no, visto che un'azienda non ce l'ha) festeggeranno la fine del blocco, il 31 dicembre, con champagne a fiumi e «un importante numero di licenziati».

E' vero che nella situazione attuale per le industrie metalmeccaniche non sarà facile affrontare un aumento del costo del lavoro, ed è vero che sono sul tavolo una serie di ipotesi come la detassazione degli aumenti contrattuali. Questioni complesse. La detassazione significherebbe in pratica che un terzo dell'aumento lo pagherebbero i contribuenti italiani rinunciando alle relative tasse. Dare i 150 euro ai metalmeccanici potrebbe costare allo stato qualcosa come 500 milioni all'anno.

Bisognerebbe discutere seriamente di tutto questo. Come sarebbe ora di chiarire l'eterna favola della produttività a cui agganciare gli aumenti salariali. La produttività non dipende dallo spirito di sacrificio dei lavoratori ma dall'abilità dell'imprenditore. In Italia non cresce da decenni perché le aziende non investono né nella ricerca né nei processi produttivi, ma il prezzo lo pagano i lavoratori.

A Bonomi invece piace rivedere i video delle sue esibizioni muscolari, e pensa che ogni richiamo al buon senso sia frutto di «pregiudizio anti industriale». Ma è proprio la sua ottusa ostinazione, accompagnata dal silenzio pigro e complice dei suoi colleghi, rischia di incrinare la coesione sociale.

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