Quattro mesi fa, la Silicon Valley Bank (Svb) dichiarava l’insolvenza e il contagio ha portato rapidamente al collasso di altre due banche (Signature e First Republic), fatto crollare l’indice delle banche regionali del 42 per cento, e quello delle banche maggiori di un terzo. Il contagio ha toccato anche l’Europa, con il crollo di Credit Suisse, assorbito dalla rivale UBS.

All’origine della crisi, il forte aumento dei tassi imposto dalle banche centrali, che da una parte fa crescere il margine di interesse delle banche; ma dall’altro agisce negativamente sui bilanci attraverso tre canali: la contrazione dei depositi, attratti dai tassi più elevati su altri strumenti di mercato monetario; l’abbassamento del valore dei titoli di stato e delle obbligazioni ad alto merito creditizio che le banche detengono come riserva di liquidità, esponendole a perdite, anche se non realizzate; e l’incremento dei crediti deteriorati da parte dei settori più indebitati (come l’immobiliare) e delle piccole imprese, più esposte al rischio di recessione.

L’intervento pubblico negli Usa e in Svizzera ha circoscritto la crisi ma ha innescato una discussione sull’adeguatezza della regolamentazione vigente e dei relativi meriti e demeriti dell’approccio europeo e americano.

In Europa ha riacceso il dibattito sulla costruzione incompleta del mercato unico bancario, sulla necessità di isolare le banche dalle crisi del debito pubblico, sul ruolo del Mes, e su come evitare che il contribuente sia chiamato a pagare per i dissesti bancari.

Siamo ancora a rischio?

Ma i sistemi bancari sono ancora a rischio di crisi? Stando ai risultati delle banche americane per il secondo trimestre, e alle aspettative degli analisti per il 2023, la risposta è negativa. Così come si stanno dissipando i timori di quella recessione da molti ancora prevista per la seconda parte dell’anno.

In attesa dei risultati attesi nelle prossime settimane, lo stesso vale per le banche italiane, sempre stando alle aspettative. Il rapido ciclo di aumento dei tassi si sta dunque concludendo senza causare stress alla struttura finanziaria, almeno nelle aspettative. Ciò non significa che le questioni attinenti a regolamentazione bancaria, tutela dei depositi e legami con la finanza pubblica siano superati o irrilevanti.

È vero il contrario: le banche per via dell’elevata leva finanziaria con cui operano, e del rapporto fiduciario su cui basano i depositi e la moneta bancaria, sono un catalizzatore delle crisi; e sarebbe meglio arrivare preparati alla prossima recessione, per quanto lontana.

Si stima che le quattro maggiori banche americane (JPMorgan, BofA, Wells Fargo, Citi) nel 2023 perdano il 7 per cento dei depositi rispetto al 2022: visto l’aumento dei tassi, una contrazione contenuta. Non ci si attende quindi un credit crunch. Gli accantonamenti per le sofferenze aumentano, ma arrivano solo allo 0,6 per cento dei prestiti, segno che la crisi degli immobili commerciali (uffici e centri) ha un impatto circoscritto.

Le sofferenze non intaccano il conto economico visto che gli interessi netti aumentano del 17 per cento, nonostante la maggiore remunerazione dei depositi, mentre le commissioni rimangono piatte. In media queste banche hanno un rendimento sul capitale del 10,4 per cento, ma, più rilevante, con una leva complessiva modesta (le attività totali sono 12 volte il patrimonio) di molto inferiore ai livelli della crisi del 2008, che fu innescata da un eccesso di indebitamento.

Anche il coefficiente di capitalizzazione di 12,7 (Cet 1) è superiore a quanto richiesto dalla regolamentazione, anche in condizioni di stress. Il mercato le valuta in media a premio di 1,25 volte il patrimonio, avendo eliminato lo sconto che tipicamente emerge quando si teme la crisi.

Analogo il giudizio del mercato sui titoli delle banche regionali Usa: i depositi sono stabili, la leva (10 volte) è inferiore alle maggiori banche, la redditività sul capitale più elevata (11,7 volte), e solo la valutazione (1 volta il patrimonio) è a sconto per via della maggiore fragilità. Ma il rischio di crisi, nei numeri, non c’è.

Italia e Usa

Interessante confrontare le nostre quattro maggiori banche (Intesa, Unicredit, BancoBpm e Bper) con le maggiori americane. Sulla base delle stime degli analisti, i depositi da noi crescono, invece di calare, per la minore concorrenza di altre forme di investimento e il maggior potere contrattuale che limita remunerazione dei depositi.

Questo si traduce in un incremento degli interessi netti del 32 per cento (il doppio degli Usa), compensato da una caduta del 10 per cento delle commissioni. Gli accantonamenti aumentano ( a 2,6 per cento dei prestiti ) più del dato americano per via dei crediti a rischio pregressi.

Il risultato complessivo è un rendimento medio sul capitale al 10,8 per cento in linea con le major americane, ma con una capitalizzazione più elevata (Cet 1 quasi al 14), anche se ottenuto con una leva maggiore (15 volte). Per quest’anno gli analisti si attendono che gli utili delle quattro banche crescano al tasso record del 58 per cento. Anche da noi, quindi, le banche sono in piena salute: niente segnali di crisi.

L’unica differenza sta nella valutazione media, appena lo 0,55 del patrimonio netto (metà degli Usa), ingiustificata visti rischi e risultati, ma dovuta alla psicologia degli investitori su cui pesano il ricordo del 2011 e la spada di Damocle del debito pubblico.

Regolare il sistema

Il rischio di una crisi ha però riacceso il dibattito su come rafforzare la regolazione del sistema bancario. C’è la proposta di aumentare la patrimonializzazione delle banche imponendo che la rischiosità degli attivi sia calcolata con criteri più stringenti, uguali per tutte, invece che con i modelli interni di ognuna. Ragionevole dubitare di quest’ultimi, ma aumentare ancora il capitale richiesto significa calmierare il loro rendimento sul capitale, alla stregua delle aziende di pubblica utilità, abbattendo in questo modo l’incentivo delle banche ad assumersi il rischio di credito.

Ma poiché il credito è essenziale alla crescita, verrebbe erogato da altri segmenti del mercato finanziario. Così la Ue vuole limitare la leva dei fondi di private debt col risultato che il rischio di credito si trasferirebbe ulteriormente altrove, rendendolo più difficile tracciare. Il rischio infatti si può spostare, non eliminare. Infine, nessun livello di patrimonializzazione sarebbe bastato ad evitare il crollo di SVB o di Credit Suisse. Il fallimento di SVB ha inoltre mostrato come il limite di 250.000 dollari per l’assicurazione sui depositi non serva contro le crisi di liquidità visto che i depositi più mobili sono quelli delle società, di un importo medio molto più elevato.

Così si propone di incrementare l’importo assicurato, o addirittura assicurare tutti i depositi, aumentando però anche l’azzardo morale delle banche, che disporrebbero di «risorse gratis» da investire senza rischi.

In Europa il limite è di soli 100.000 euro, e il costo dell’assicurazione grava sui sistemi nazionali, troppo piccoli e frammentati per avere le risorse necessarie a rendere l’assicurazione efficace. Ma un’assicurazione unica europea incontra da anni l’opposizione tedesca che chiede di considerare i titoli di stato italiani rischiosi ai fini del calcolo del patrimonio.

In caso di una crisi delle finanze pubbliche, infatti, il valore del debito pubblico crollerebbe, trascinando a fondo le nostre banche. A quel punto lo stato italiano non avrebbe le risorse per salvare gli istituti di credito, e dovrebbe far ricorso al Mes; che però il governo non vuole ratificare per evitare lo stigma della condizionalità che verrebbe imposta.

Forse il governo confida che la Bce impedisca una crisi del debito, rendendo il Mes inutile. Qui sta l’errore: la Bce certamente interverrebbe per evitare che l’Italia porti a fondo l’euro, ma solo dopo che la crisi si è manifestata, per far emergere le responsabilità del governo in carica; e con il programma TPI, di cui non si conoscono i dettagli, ma che comunque prevede la condizionalità. Con o senza Mes. Chissà se a palazzo Chigi lo hanno capito.

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