Nel suo discorso della settimana scorsa al Forum economico di San Pietroburgo, il presidente russo Vladimir Putin ha ripetuto una serie di tristi banalità sulla guerra in corso, ma ha anche offerto un angolo di lettura della sua strategia che vale la pena di prendere in seria considerazione.

Se volessimo sintetizzare, ha detto che il fronte interno del suo paese resisterà più a lungo del fonte interno di quelli che lui chiama gli «occidentali». E, su questo, potrebbe non aver torto o, peggio, potrebbe avere ragione.

Sempre la settimana scorsa, The Economist ha scritto che «è difficile sapere di cosa preoccuparsi di più, se dell’inflazione o della recessione».

Al posto del fantasma della «stagflazione» (stagnazione più inflazione) si affaccia quello di una combinazione di recessione e inflazione, che colpirebbe investitori e consumatori al tempo stesso, trascinando l’economia in una spirale verso il basso. Questo «doom loop», avverte The Economist, rischia di essere particolarmente grave per l’Europa a causa del suo «enorme accumulo di debito pubblico», non compensato da una valuta-rifugio (come nel caso degli Stati Uniti).

Se l’inflazione è ormai un dato di fatto, e in crescita, la recessione «non è inevitabile» affermano in coro Joe Biden e Janet Yellen; gli imprenditori europei riuniti a Londra il mese scorso hanno detto, dal canto loro, che è «in the making», in divenire. Se a inflazione e recessione si aggiunge la possibilità di una seria riduzione dei consumi energetici, i dubbi su una possibile crisi sociale a breve scadenza si affievoliscono.

Nei paesi più avanzati, il panico ha cominciato a serpeggiare dopo la crisi del 2008, quando le loro popolazioni hanno per la prima volta toccato con mano che cosa volesse dire aver perso la supremazia assoluta sui mercati mondiali.

La globalizzazione

La colpa è stata data alla globalizzazione, nonostante che quel periodo di apertura (1980-2015) sia stato senza alcun dubbio quello in cui la condizione dell’umanità è migliorata di più, in un arco temporale così breve, dacché l’homo sapiens esiste sulla terra.

Alle popolazioni dei paesi più avanzati, però, interessava poco o niente che, grazie alla globalizzazione, la povertà nel mondo fosse diminuita di quattro volte, che il reddito pro capite mondiale si fosse moltiplicato per tre e che la speranza di vita fosse passata da 62,8 a 71,8 anni; quelle popolazioni, infatti, non conoscevano più la povertà da decenni e avevano già il reddito pro capite e la speranza di vita più alti del mondo. Loro vedevano solo la minaccia alla loro condizione sociale privilegiata, e si crogiolavano nell’autodefinizione di «perdenti della globalizzazione».

I paesi più avanzati, privi ormai della possibilità di dominare da soli i mercati mondiali, e quindi incapaci di reggere il passo della competizione con gli emergenti, hanno garantito le condizioni sociali privilegiate delle loro popolazioni scavando senza ritegno nelle casse dello stato: nel 1982, il debito pubblico degli Stati Uniti era il 45 per cento del loro Pil; nel 2015 era diventato il 105 per cento (e nel 2020 il 134 per cento). La stessa cosa succedeva ovunque: in Italia, per esempio, era passato dal 63 per cento del 1982 al 133 per cento del 2015 (e al 155 per cento nel 2020); in Francia, dal 25,3 per cento del 1982 al 96 per cento nel 2015, un aumento di quasi quattro volte (diventato poi il 115 per cento nel 2020). E si era in un’epoca di assenza totale di inflazione, grazie, tra l’altro, alla globalizzazione; e in un’epoca in cui le recessioni non sono mancate, certo, ma sono state corte, grazie, tra l’altro, alla globalizzazione.

Nei paesi più avanzati (ma non solo), il panico strisciante provocato dalla crisi del 2008 si è tradotto in movimenti sociali dal sapore diciannovista (i gilet jaunes in Francia), e soprattutto in rivolte elettorali populiste, che hanno colpito in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Italia, tanto per ricordare i casi più celebri. E non era ancora successo niente. Oggi, che si entra in una fase di «doom loop», i movimenti sociali diciannovisti e le rivolte elettorali non potranno che moltiplicarsi.

Per questo, Putin ha ragione a puntare sugli «elementi radicali e di degrado che nel prossimo futuro porteranno a un cambio delle élite» nei paesi più avanzati, che lui definisce «occidentali». In quei paesi, tutti i partiti in lizza si propongono di vincere le elezioni promettendo di continuare a usare lo stesso strumento che ha impedito finora a quei paesi di affondare: dar fondo alle casse pubbliche.

Ma i populisti lo fanno di più, meglio e senza scrupoli: o perché non sanno che la ricchezza, per spenderla, bisogna produrla, o perché le loro fortune elettorali private sono per loro incomparabilmente più importanti che le fortune dei loro paesi. I risultati delle ultime elezioni in Francia, dove i due fronti populisti (capitanati, tra l’altro, da due amici della Russia) hanno ottenuto quasi la maggioranza assoluta dei voti (48,9 per cento) ne sono una prova. L’Italia confermerà a breve.

La Russia ha un vantaggio relativo sull’«Occidente» che è stato molto sottovalutato: che ha poco da perdere. Questo è vero per il paese, strutturalmente debole e privo di asset al di fuori di quello militare (gravemente compromesso nel conflitto in corso), ma è vero anche e soprattutto per la sua popolazione.

Con l’arrivo dell’autunno freddo – questo è il calcolo – le «élite» dei paesi più avanzati saranno sottoposte a uno stress-test dal quale rischiano di non riuscire a risollevarsi. Anche la Russia si è sottoposta a un auto-stress-test: la speranza della sua classe dirigente è di resistere un minuto in più del nemico.

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