«Non conosco un paese dove regni meno l’indipendenza di spirito e meno autentica libertà di discussione che in America …». La frase non è stata scritta da un contemporaneo e non da un visitatore preconcetto, ma da Alexis de Tocqueville nel 1831. La preoccupazione dell’aristocratico francese si estendeva alle conseguenze sulla nascente democrazia americana del conformismo che sopprime il dibattito delle idee, opprime i loro portatori e li reprime. Potrei dire che Tocqueville non aveva visitato abbastanza paesi per avere dati comparati a sostegno della severissima valutazione. Sono ragionevolmente convinto che la libertà di discussione sia (stata) poco tutelata in molti paesi.

Poi, sappiamo tutti che la libertà di parola (free speech) è solennemente codificata nel Primo emendamento alla Costituzione USA fin dal lontano 1791, facendo parte del pacchetto noto come Bill of Rights. Ma sono le tendenze contemporanee negli Stati Uniti più che altrove (anche se dagli Usa spesso si irradiano) che appaiono preoccupanti. «Le idee dei paesi dominanti spesso diventano idee dominanti»: politically correct e cancel culture
Inizio un discorso inevitabilmente complicatissimo e che è già fortemente incrostato da una molteplicità di interpretazioni. Nella sua versione buona il politically correct è fondamentalmente ipocrisia: non esprimere e celare le proprie opinioni quando divergono da quelle della maggioranza e fare un omaggio quanto meno verbale (lip service) a quanto i più dicono. Nella sua versione “cattiva”, il politically correct è la tendenza portata agli estremi di stabilire quello che è accettabile dire e quello che non è accettabile e, naturalmente, di sanzionare i devianti vale a dire coloro che non si uniformano.

Nella seconda versione il politically correct può giungere fino a violare la libertà di parola imponendo una censura e punendo coloro che insistono a esprimersi in maniera difforme. Nei casi di grave censura gli scorrettamente politici possono appellarsi al primo emendamento della Costituzione americana e, in Italia, all’articolo 21. Nei casi meno gravi difendersi dalla coltre del conformismo di gruppo, di ceto, di massai può essere difficilissimo, quasi impossibile.
Dal politically correct è derivata la cosiddetta cancel culture, cultura del boicottaggio, della cancellazione di coloro che esprimono posizioni e comportamenti considerati non in linea con la cultura dominante. Distruggere le statue del generale sudista e schiavista Lee e i monumenti a Hitler (e Stalin) è comprensibile, anche se, talvolta, i monumenti del passato potrebbero servire a insegnare la storia.

Fare a meno di Shakespeare e di Mozart, uomini bianchi morti, mi sembra propria un esempio deplorevole di, stiracchio il concetto a mio favore, di cancellazione della cultura.

Tutt’altro è il discorso relativo al vilipendio delle istituzioni, all’istigazione a delinquere, all’incitare a comportamenti criminali e, persino, alle offese e agli insulti politicamente motivati.

Non credo che la libertà di parola possa essere invocata a difesa di chi oltraggia deliberatamente, ma, certamente, riconosco la complessità delle situazioni e dei giudizi.

So che, in democrazia, il conflitto delle idee deve essere il più libero e anche il più aspro possibile. Non vorrei, però, che con la scusa dell’asprezza e con il richiamo alla libertà si legittimassero parole e comportamenti che mirano a minare alle fondamenta le democrazie costituzionali. Di tanto in tanto vanno posti punti fermi. Qui e adesso, pongo il mio punto, democraticamente rivedibile e superabile.  

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