Il tentativo si era già reso chiaro fin dai primi giorni dopo l’attacco dei Hamas del 7 ottobre, con polemiche subito accantonate perché tempisticamente inopportune e punto di scontro con il nuovo compagno di governo e leader dell’opposizione Benny Gantz.

Man mano che passano i giorni, però, il piano di Netanyahu per riciclarsi nella vita politica israeliana si fa sempre più nitido. Ne abbiamo un’ulteriore conferma nell’ultimo messaggio alla nazione del 20 dicembre, in cui il premier israeliano ribadisce lo scopo dell’azione militare in corso: «Continuiamo la guerra fino alla fine. La guerra continuerà finché Hamas non verrà eliminato, finché non verrà ottenuta la vittoria. Il destino di tutti i terroristi di Hamas, dal primo all'ultimo, è la morte. Hanno solo due opzioni: arrendersi o morire».

Un obiettivo talmente vago da ricordare l’enduring freedom (libertà duratura), con cui George W. Bush intitolò la reazione americana dopo l’11 settembre.

Re Bibi, come continuano a chiamarlo i suoi sostenitori, già primo ministro più longevo della storia dello stato, tenta così di allungare la sua carriera politica candidandosi a difensore della patria contro i barbari alle porte. Provando anche a far dimenticare l’accondiscendenza che in questi anni ha avuto verso di loro con un, nemmeno troppo tacito, accordo di potere.

Per questo vedere i numeri di transfrontalieri quotidiani da Gaza verso lo stato ebraico prima dello scoppio del conflitto. Come già detto da Renzo Guolo su queste pagine, l’obiettivo è calciare in avanti la palla fino alle presidenziali Usa, sperando in una vittoria di Trump.

Ora, lasciando perdere le falle gigantesche in questa mossa che appare davvero disperata. Anzitutto perché, come ben si vede, non è nemmeno sicuro che Trump lo facciano candidare. Secondo perché, anche fosse, il promotore degli Accordi di Abramo non sarebbe affatto contento di veder naufragare la propria creatura.

Terzo perché un Medio Oriente instabile non è negli interessi americani, che si stanno già vedendo mettere in crisi il progetto di disimpegno per concentrare i propri sforzi nell’Indo-Pacifico.

Inoltre, in caso di rielezione di Trump, tutto farebbe pensare ad una replica, su scala assai maggiore, del conflitto interno che abbiamo visto nel 2023 proprio in Israele, con una società divisa in due fazioni l’una contro l’altra armate e annesso conflitto fra poteri dello Stato. Uno scenario deleterio per qualunque alleato americano.

Ciò che, però, più inquieta è come un simile progetto di sopravvivenza politica continui a contrastare con le intenzioni degli apparati israeliani, dove vediamo un mossad che riprende le trattative per gli ostaggi (leggi per trovare una fine a questo conflitto e pensare alla sicurezza di Israele per il dopo) e una presidenza della repubblica intenta a mantenere legami con gli alleati storici.

È in questo iato fra fantasia bibista e realtà politica che si insinua il dubbio, che comincia a circolare in Israele, di un intento alla Erdogan, dove Netanyahu completerebbe il progetto di rientro nella scena politica scaricando, come appunto fatto inizialmente in modo troppo avventato, le responsabilità dell’attacco subito sull’esercito.

Sarebbe l’occasione per fare piazza pulita dei generali già troppo riottosi durante le polemiche per la riforma giudiziaria e piazzarci i propri. Un piano di pura fantasia.

Non solo perché, come abbondantemente dimostrato, la società civile israeliana non sta a subire la volontà del faraone, mentre in Turchia l’attivismo critico è confinato nella realtà più emancipate come le grandi città.

Ma anche perché esistono dei dati culturali ad impedire l’assoggettamento delle forze armate al potere politico. Per giustificare il famoso esercito di cittadini israeliano si tirano spesso in ballo le pur presenti ragioni demografiche, ma se si va a prendere il Trattato teologico-politico dove Spinoza commenta la forma di governo ebraica partendo dalla Torah, viene sottolineata con forza l’idea di un esercito di popolo, proprio per scongiurare la logica faraonica in cui il sovrano si costruisce la propria milizia privata.

Qualcuno dica a Netanyahu che la corsa è finita e che per lui non ci saranno né salvacondotti giudiziari né scorciatoie politiche. Volontari nel Likud cercasi.

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