Le campagne elettorali fanno emergere una caratteristica costante delle politiche economiche nel nostro paese: l’enfasi quasi esclusiva sugli aspetti redistributivi. Per politica redistribuiva intendo qualsiasi legge, decreto o provvedimento che aumenta o riduce il reddito di una specifica categoria di cittadini, o professione, o impresa o gruppo sociale, o area geografica.

Non parlo dunque solo dei provvedimenti-bandiera come l’abolizione dell’Ici sulla prima casa di Berlusconi, la sua reintroduzione con l’Imu o l’innalzamento dell’età pensionabile di Mario Monti, gli 80 euro di Renzi, la flat tax per gli autonomi di Salvini, o il reddito di cittadinanza del M5s; ma del complesso dei provvedimenti che hanno caratterizzato le politiche dei nostri governi.

Troppe redistribuzioni

Sono chiaramente ridistribuivi i cambiamenti di aliquote fiscali e l’abolizione o l’introduzione di nuove imposte; ma anche le detrazioni/deduzioni per la dichiarazione dei redditi: la detraibilità delle spese veterinarie aumenta il reddito di chi possiede animali (dal veterinario ci andrebbe anche senza detrazione); quella degli interessi sul mutuo avvantaggia chi si indebita e le banche che lo erogano; e l’eco bonus per gli infissi chi produce e installa finestre.

Ogni provvedimento sulle pensioni redistribuisce reddito: per esempio il passaggio dal retributivo al contributivo in un sistema a ripartizione (l’onere dei pensionati è finanziato coi contributi sociali di chi lavora) redistribuisce reddito a favore di chi ha poca anzianità lavorativa perché pagherà meno contributi di quanti ne avrebbe dovuti altrimenti versare con il retributivo. L’ammortamento accelerato per alcuni beni di investimento avvantaggia chi quel bene lo produce e gli azionisti di quelle imprese che l’investimento lo avrebbero fatto comunque.

È redistributivo per azionisti e creditori di un’impresa ogni cambiamento fiscale che incida su dividendi, debito, cessioni, fusioni o acquisizioni; o la tassa sugli extra profitti del settore energetico, o l’Irap maggiorata per banche e assicurazioni, o gli incentivi per assumere o fare insediamenti produttivi in una certa area geografica.

Redistributivi sono anche i provvedimenti per la concorrenza come per esempio quelli per concessioni balneari e taxi, perché riducono il valore del diritto di sfruttamento di un bene pubblico per chi ne ha beneficiato in passato. L’elenco potrebbe continuare.

Condannati all’insuccesso

Diverse le motivazioni sottostanti: la ricerca di consensi e voti, gli obiettivi di finanza pubblica, la ricerca di una maggiore equità. Ma a prescindere dal giudizio di valore sulle motivazioni, il punto che voglio sottolineare è che la natura redistribuiva della politica economica italiana la rende inefficace, di difficile implementazione, e spesso controproducente.

La ragione sta nella storica stagnazione del reddito pro capite del nostro paese e che, a differenza del Pil che misura la crescita complessiva dell’economia, indica come si evolve il tenore di vita degli italiani nel tempo e rispetto agli altri paesi. 

La Banca Mondiale produce le serie storiche del reddito pro capite dei vari paesi espresse in “dollari internazionali costanti” (lo stesso paniere di beni e servizi che un dollaro può acquistare negli Usa) per renderle confrontabili.

Nel grafico si vede come l’Italia sia stata il fanalino di coda nei 20 anni che hanno preceduto il Covid (per evitare le distorsioni della pandemia), con una crescita media annua del reddito pro capite di appena lo 0,14 per cento, rispetto all’1,67 del Canada, 1,29 di Germania, 1,27 Usa, 1,15 UK, 0,9 Francia e 0,86 del Giappone. Perfino l’Argentina ha fatto meglio.

Chi pensasse che sia il risultato di euro e austerità basta che guardi nel grafico al crollo che la Troika ha imposto alla Grecia (e che pure ha fatto meglio dell’Italia nel ventennio); o verifichi come il nostro Paese rimanga ultimo (crescita media annua 0,22 per cento) anche estendendo il confronto agli ultimi 30 anni. 

A somma zero

Una crescita quasi nulla del reddito pro capite per periodi così lunghi rende ogni politica redistribuiva un gioco a somma zero, e quindi inefficace perché chi perde con la redistribuzione oggi tende a coalizzarsi per esserne favorito domani.

Ritengo che l’intrinseca instabilità politica italiana ne sia una conseguenza, piuttosto che la causa. Le politiche redistributive, inoltre, seguono spesso obiettivi politici di breve respiro, per quanto nobili, che finiscono per danneggiare la crescita in quanto non improntate all’efficienza e prive di obiettivi ben definiti.

Per esempio, il welfare. Credo ci sia ampio consenso per un sistema che impedisca ai cittadini di scendere sotto un livello minimo di benessere: significa un salario minimo per chi lavora; sussidi, assistenza e formazione per chi ha perso o cerca occupazione; un reddito minimo per chi è anziano, in situazione disagiata, disabile o malato.

Strumenti diversi che dovrebbero però essere strettamente coordinati formando un tutt’uno, e finanziati nel modo meno distorsivo per la crescita: ovvero scegliendo le imposte che meno distorcono gli incentivi a lavorare e a investire in capitale di rischio profittevole.

Invece, gli interventi di welfare vengono adottati da noi in ordine sparso, governo dopo governo, senza coordinamento e chiarezza di obiettivi; e la redistribuzione fatta anche con le imposte, senza preoccuparsi dell’impatto del sistema tributario sulla crescita. 

Stato e concorrenza

Un’altro esempio è la politica per la concorrenza. E’ prevalentemente redistributiva ma potenzialmente favorevole alla crescita. Perché sia accettata però da chi la subisce, evitando che si coalizzi per bloccarla, bisogna che sia percepita come una politica che tocchi tutti e non solo penalizzante per alcune categorie: benissimo aprire alla concorrenza concessioni balneari e taxi, ma come si può pensare che non vengano osteggiate quando poi gli stessi enti locali preservano decine di migliaia di monopoli date in gestione con logiche clientelari, senza concorrenza, ad altrettante aziende municipali o regionali?

Anche il ruolo dello stato nell’economia dev’essere improntato alla crescita, per esempio finanziando il capitale umano, abbattendo le barriere all’ingresso in certi settori o indirizzando le risorse per chiudere rapidamente il gap con la concorrenza straniera. Non ci sarebbe il predominio americano nella tecnologia senza i massicci finanziamenti dell’industria della difesa.

Da noi invece anche l’intervento dello Stato nell’economia è prevalentemente redistribuivo: la crescente partecipazione pubblica nel capitale delle società di fatto ne condiziona la gestione allo scopo di fare politica dei redditi, generare consensi o perseguire finalità della politica in contrasto quanto sarebbe necessario per massimizzare redditività e produttività, a danno della crescita.

Con il Pnrr si è usciti per la prima volta da questa logica, perché l’Europa ci ha imposto riforme come quella della pubblica amministrazione, degli appalti o della giustizia, che non hanno scopi redistributivi, ma sono strumentali alla crescita.

E’ però solo un primo passo, anche se nella giusta direzione, la cui efficacia dipenderà comunque da come verranno implementate le riforme, e dal tempo - tanto - necessario per farlo.

Purtroppo il Pnrr appare come una parentesi che presto si chiuderà con le elezioni e il ritorno alle vecchie politiche redistributive; che portano decrescita (infelice); e che a sua volta genera ancora più domanda di redistribuzione.

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