Il 19 ottobre, l’Economist ha pubblicato un articolo che ha fatto molto discutere, soprattutto per la copertina del numero della rivista che da quell’articolo prende ispirazione: Liz Truss, la prima ministra britannica, che, vestita da centurione, tiene in una mano uno scudo a forma di pizza e nell’altra un forchettone con degli spaghetti. Titolo: «Welcome to Britaly».

Al di là dei soliti stereotipi di cattivo gusto, lo scopo dell’articolo – molto meno offensivo rispetto alla copertina – è quello di mettere a confronto la situazione italiana, indicata come un modello da evitare in un documento del 2012 da Truss, e quella britannica, sempre più simile a quella del nostro paese.

Siamo abituati a considerarci gli ultimi della classe, anche se spesso c’è molto risentimento quando le critiche arrivano dall’estero (questa copertina dell’Economist è uno dei tanti casi), ma meritiamo davvero di essere considerati gli ultimi della classe? Posto che l’Italia resta uno dei paesi più avanzati al mondo e che anche in Unione europea i paesi più indietro rispetto a noi non sono pochi, il confronto con l’Europa occidentale è abbastanza impietoso.

All’interno dell’articolo dell’Economist, vengono citati soprattutto dati relativi alla produttività e alla crescita, ma gli indicatori preoccupanti sono moltissimi. Dal punto di vista economico, siamo il paese che è cresciuto meno nell’ultimo decennio, siamo tra coloro che hanno subito di più l’impatto della Grande recessione e della crisi del debito sovrano e il nostro mercato del lavoro è sostanzialmente fermo: ci sono voluti 11 anni per ritornare al numero di occupati che avevamo prima della crisi del 2008 e, con il Covid, siamo tornati nuovamente sotto quel livello. Anche le retribuzioni, in parte a causa della mancata crescita della produttività, sono ferme da decenni. Al periodo di crisi e stagnazione attuale, inoltre, si aggiunge la prospettiva di una situazione sempre più instabile, sia per gli scarsi spazi di manovra della politica fiscale (il nostro debito pubblico è tra i più alti al mondo), sia per l’invecchiamento della popolazione, che comporterà un’economia sempre più dedicata al sostegno delle persone anziane e meno all’innovazione (già particolarmente carente nel nostro paese).

Il Regno Unito si trova nella stessa situazione? Non secondo l’Economist, ma i due paesi si sono sempre più avvicinati nel corso degli ultimi anni, e non perché l’Italia abbia fatto particolari miglioramenti per recuperare terreno. Tra i dati citati dall’articolo, la bassa crescita della produttività (Regno Unito penultimo in Europa, Italia ultima), l’aumento del costo dell’indebitamento (di magnitudine inferiore per il Regno Unito, anche perché il debito pubblico è molto meno elevato) e la poca fiducia nella politica (nel 2012, la quota di cittadini britannici che aveva fiducia nel governo era di 12 punti percentuali superiore a quella italiana, mentre oggi il distacco è di soli 4 punti).

Stabilità premessa della crescita 

Proprio la politica sembra essere il problema: negli ultimi anni, in particolare dopo Brexit, l’instabilità politica è cresciuta moltissimo. La durata media dei governi è sempre più breve (i primi ministri sono stati quattro da Brexit a oggi, cinque se consideriamo il successore di Truss, contro i tredici dal 1945 al 2016) e la maggioranza è sempre più risicata e costretta scendere a compromessi con piccoli partiti per poter governare (vi ricorda qualcosa?).

Come ben sottolineato dall’Economist, la stabilità politica non è un effetto o un vantaggio ulteriore della crescita economica, ma è una condizione necessaria per garantire che questa avvenga. Il Pil e gli altri indicatori economici italiani non crescono anche perché i governi non sono in grado di imporre una politica economica che rimanga coerente nel tempo e che sia frutto di una linea chiara, non intaccata da compromessi eccessivi e da favori elettorali per rimanere al potere. Così sta avvenendo per il Regno Unito, che, grazie al sistema maggioritario, ha sempre potuto godere di maggioranze forti e quindi di pianificazione nel medio-lungo termine. Brexit, la pandemia e la crisi attuale, però, sembrano aver messo a dura prova questa solidità, e gli effetti si vedono. La buona notizia per il Regno Unito è che la crisi politica sembra interessare un solo partito, quello Conservatore, logorato da divisioni interne generate da Brexit, dalle frange più populiste e dal fatto di essere stato al governo per 12 anni. Un po’ di sana alternanza politica potrebbe bastare per tornare sulla retta via. Per quanto riguarda l’Italia, anche alla luce delle scarse riflessioni interne da parte dei partiti che hanno perso le elezioni e delle divisioni che già affliggono il Centrodestra, la soluzione non sembra essere così immediata.

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