Nel 2020 abbiamo vissuto la più profonda e rapida recessione della storia. Eppure l’indice delle borse mondiali (in dollari) è cresciuto nell’anno del 14 per cento. C’è il rischio di una bolla dovuta al fiume di liquidità creata dalle banche centrali? Non lo credo.

La prima ragione è che questa recessione non è stata accompagnata da una crisi dei mercati finanziari perché le banche centrali sono intervenute rapidamente, e con modalità inusitate, per garantirne il funzionamento.

Negli Stati Uniti, dove il credito è intermediato prevalentemente dal mercato, la Federal Reserve per la prima volta ha acquistato obbligazioni corporate e finanziato direttamente le piccole imprese. Nell’Eurozona, con un sistema bancocentrico, la Bce ha finanziato le banche per 1.170 miliardi, oltre a permetterle di prendere a prestito dalla Banca Centrale a un tasso inferiore a quello sulle riserve depositate; e ha acquistato 1.070 miliardi di titoli di stato per immettere liquidità e scongiurare una crisi del debito pubblico. In Giappone, oltre la meta dei titoli di stato sono detenuti dalla Banca Centrale, che è pure il principale investitore nell’indice di borsa.

La crisi asimmettrica 

La seconda, è che la crisi ha colpito le imprese in modo asimmetrico: le più colpite sono state le piccole imprese, che non hanno accesso al mercato dei capitali e beneficiano in misura minore degli investimenti pubblici; e quelle nel settore dei viaggi, ristorazione e tempo libero, specie se operanti solo a livello locale. Quelle grandi, invece, hanno potuto raccogliere capitali a costo zero, sono le principali beneficiarie degli interventi pubblici, diversificano i rischi operando come multinazionali, spesso nei settori favoriti dalla pandemia (medicale, genetica, logistica, ambiente, ecommerce, tecnologia).

Per loro, che sono i titoli maggiormente presenti nelle Borse, c’è l’aspettativa di una forte ripresa degli utili nel 2021 e negli anni a seguire. Negli Usa l’hanno soprannominata ripresa a K: c’è chi sale e chi scende.

In Italia paghiamo un costo più elevato non solo in termini di vite umane ma anche economico, perché abbiamo imprese mediamente sottodimensionate e a basso contenuto tecnologico; una larga esposizione a piccole aziende locali nei segmenti dei servizi maggiormente colpiti dalla crisi; e le grandi sono prevalentemente banche e servizi di pubblica utilità. A questo si aggiunge un piano di spesa pubblica, per quanto è dato capire, che predilige sussidi e grandi infrastrutture.

La terza risiede nell’asimmetria tra l’andamento degli indici di attività economica e di business sentiment, che hanno recuperato i livelli pre crisi, e i crolli generalizzati nella fiducia dei consumatori. L’origine della crisi, un virus sconosciuto e mortale, ha ingigantito l’incertezza del futuro, prova ne sia il generalizzato aumento del saggio di risparmio delle famiglie. Rispetto alla gravità della recessione, colpisce però la contenuta perdita di occupazione grazie alle politiche messe in atto dai governi per attenuare la perdita di reddito di famiglie e imprese.

L’Italia arranca

Anche qui, purtroppo, Italia e Spagna sono state le più penalizzate per via della loro struttura economica e della numerosità di lavoratori autonomi e imprese individuali: da fine 2019, infatti, hanno perso, rispettivamente, il 2,1 per cento e il 4 per cento degli occupati, rispetto a un calo dell’1,3 per cento nel resto d’Europa: una percentuale quest’ultima che la ripresa di una vasta area economica può riassorbire in tempi rapidi. In percentuale, è una perdita di occupazione identica a quella di Corea e Giappone.

Negli Stati Uniti dove il Governo, a differenza dell’Europa, è intervenuto con un sussidio pagato direttamente alle famiglie, l’occupazione è scesa del 5,7 per cento, ma non altrettanto il loro reddito: mentre nel secondo trimestre del 2020 il Pil segnava il maggior crollo della storia, il reddito disponibile delle famiglie metteva a segno il maggior rialzo.

E’ quindi ragionevole ipotizzare che il massiccio piano di vaccinazioni in atto nel mondo, e l’arrivo di nuovi farmaci come gli anticorpi monoclonali, ridaranno fiducia ai consumatori già nella prima parte dell’anno, con un conseguente rapido aumento della loro domanda di beni e servizi, repressa dal Covid; con effetti moltiplicativi tra i paesi grazie all’impulso che la domanda di consumo avrà sul commercio internazionale, oltre alla ricostituzione delle catene di produzione.

L’ultima ragione è che i multipli elevati a cui la borsa sconta la crescita degli utili attesi sono giustificati da tassi di interesse a lungo termine storicamente bassi, quando non negativi anche in termini nominali. Questo non significa che i mercati continueranno a salire in linea retta, ma piuttosto che non c’è il rischio di una bolla. Probabile che l’anno appena iniziato sarà caratterizzato da momentanei aumenti di volatilità, ma all’interno di un trend che rimarrà favorevole agli investimenti in attività rischiose.

Le incognite sul 2021

Che cosa può andare storto? Tre i possibili rischi, al momento poco probabili. Ritardi nella inoculazione dei vaccini o una loro ridotta capacità di immunizzazione.

Una crisi finanziaria causata da un’esplosione di insolvenze a causa dell’enorme indebitamento pubblico e privato accumulato. Ma è un rischio che le Banche Centrali hanno già dimostrato di saper prevenire, e che di fatto rimarrà il loro obiettivo primario sotto la costante pressione di governi e opinione pubblica.

Un rialzo dell’inflazione che, spingendo al rialzo i tassi a lungo termine, farebbe precipitare le valutazioni di borsa e la solvibilità di molti debitori.

Permangono tuttavia immutate le concause della disinflazione mondiale che ha caratterizzato l’ultimo ventennio: invecchiamento della popolazione, energia a basso costo, eccesso di risparmio nei paesi ad alta crescita, globalizzazione e innovazione tecnologica.

L’esperienza del Giappone ha poi dimostrato che, dopo anni di deflazione e stagnazione, come è il caso dell’Eurozona, diventa estremamente difficile per la politica monetaria invertire le aspettative di famiglie e imprese.

Negli Stati Uniti si è passati a un obiettivo di inflazione media nel lungo periodo, ovvero la crescita dei prezzi può eccedere, anche a lungo, il target della Banca Centrale se precedentemente l’inflazione è rimasta per tanto tempo al di sotto di questo. Ma in questo caso è ragionevole attendersi che la Federal Reserve, come in altri paesi, intervenga a calmierare la salita dei tassi a lungo.

Così il tasso interbancario (Federal Funds a 30 giorni), oggi all’0,09 per cento, viene scambiato allo 0,15 per cento sul mercato dei future per la scadenza di fine 2023.

Quanto all’Italia, quest’anno e probabilmente nel 2022, Bce e Commissione saranno troppo impegnate a sostenere la ripresa per permettere una crisi del nostro debito pubblico. Ma poi il problema della sua sostenibilità riemergerà in tutta la sua gravità.

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