La creazione di un eterogeno gruppo parlamentare pro-Conte al Senato ha riaperto sulla stampa e nei social la ricorrente polemica sui cambi di casacca, interpretati alternativamente come atto di responsabilità o frutto di calcoli meschini. Come può capitare, il clamore del momento su strane capriole come quella del senatore Vitali rischia di deformare la nostra percezione riguardo alle dimensioni e alla natura del fenomeno.

Yara Nardi/AP

Il grafico pubblicato in questa pagina presenta una semplice rielaborazione di dati tratti dall’associazione Openpolis.it e ci ricorda innanzitutto che il numero complessivo di spostamenti da un gruppo all’altro è stato finora più basso, nella attuale legislatura, rispetto alle due precedenti. Non sembra peraltro destinato a crescere in misura significativa nei prossimi anni. Se consideriamo il numero degli spostamenti registrati con riguardo ciascun gruppo in rapporto alla sua dimensione, i transiti maggiori sono avvenuti nell’area del centrosinistra. Durante la precedente legislatura erano avvenuti invece soprattutto in zona centrodestra. I Cinque Stelle, considerati il partito più vagolante, hanno invece registrato, insieme alla Lega, tra i tassi di mobilità più bassi sia in questa che nella passata legislatura.

L’enfasi mediatica sugli strani casi del momento, oltre a far perdere di vista le dimensioni del fenomeno, tende a introdurre una discutibile discriminazione riguardo alla qualità morale dei cambiamenti individuali e collettivi. La quasi totalità dei parlamentari ha come obiettivo primario la permanenza nel ruolo e il rinnovo dell’incarico.

Alla pari di chiunque sia entrato, per merito o per fatalità, in una organizzazione che paga meglio, garantisce maggiori riconoscimenti e uno status più elevati, ha sedi molto confortevoli e consente di avere un impatto maggiore sul proprio mondo di quanto potrebbe sperare in qualsiasi altro ambito professionale.

Può valere per politici che non hanno mai realmente avuto un altro mestiere come per persone i cui (prevalenti) vantaggi in altri settori sono potenziati dal ruolo parlamentare. Vale per chi ha come misura del proprio benessere principalmente il reddito e chi si sente mosso da una profonda missione politica. In tutti i casi, resistere il più a lungo possibile nella posizione è vitale. La scelta tra rimanere leali al proprio gruppo o uscire dipende in larga misura dalle aspettative a questo riguardo.

Ciò detto, il sostegno di Alfano, Lorenzin e Lupi al governo Letta, ancora prima che al governo Renzi, che consentì di evitare il voto anticipato e ai suddetti di ottenere incarichi ministeriali, aveva una connotazione politica più nobile rispetto ai pochi transiti di singoli parlamentari a sostegno del Conte ter?

E questi spostamenti sono moralmente più riprovevoli della creazione del gruppo Italia Viva da parte del segretario che aveva fatto le liste Pd nel 2018, e che ora usa parlamentari eletti con i voti di elettori Pd contro quello stesso partito? E la creazione del gruppo art1-Mdp da parte dello stesso segretario che aveva fatto le liste Pd nel 2013 e che ha poi usato parlamentari eletti con i voti di elettori P contro quello stesso partito è più o meno riprovevole dei casi precedenti?

Per inciso, questo certifica che il Pd, nato per superare la frammentazione e i poteri di veto dei partitini ne ha generati a sua volta di ancora più cattivi contro sé stesso, con fuoriusciti che riescono a ottenere grandi benefici a fronte di risultati elettorali miseri.

La sola differenza è che in altri casi gli spostamenti politicamente sleali, motivati anche dal naturale attaccamento agli incarichi, erano dovuti a calcoli di piccoli gruppi mentre stavolta riguardano singoli individui incerti e male assortiti.

Secondo una classica scorciatoia populista, la soluzione starebbe nella abolizione del principio costituzionale che vieta il vincolo di mandato. Per mettere in crisi i sostenitori di questa tesi basterebbe chiedere se a loro giudizio sarebbe stato giusto sostituire gli antagonisti di Renzi usciti dal Pd nel 2017 con parlamentari leali al segretario, o i seguaci del Fini antiberlusconiano del 2010 con sodali di Arcore … e così via.

Oppure chiedere come verrebbe applicato il vincolo di mandato quando il parlamentare rimane nel suo gruppo originario e vota sistematicamente in modo difforme, o se viene espulso per ritorsione con una decisione del leader di quel partito. L’abolizione del vincolo di mandato, insomma, non solo per queste ragioni, è una baggianata.

Come l’implicita discriminazione morale tra transiti individuali e di gruppo. Le scelte dei parlamentari sono sempre dettate da un misto indistinguibile di motivazioni egoistiche e politiche. Chi pretende di discernere l’ambiguità morale sottostante richiamando alla doverosa lealtà di partito lo fa quasi sempre a uso delle proprie preferenze del momento.

 

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