«E chi ci va di mezzo siamo sempre noi morti di fame»: mi ha risposto mia madre quando le ho domandato sa sarebbe rimasta a casa a causa dell’ultima chiusura delle scuole. «Ma vi pagano?», le ho chiesto, con una domanda a un passo dall’essere retorica. «Ci mettono in cassa integrazione. Ma la cassa integrazione non si sa quando arriva», ha aggiunto col tono della rassegnazione.

Mia madre serve nelle mense scolastiche della periferia milanese e lei e le sue colleghe – come molti membri di tutte quelle categorie che raramente accedono a forme di rappresentazione nel dibattito pubblico, rimanendo così al loro destino – stanno subendo da mesi gli effetti di un sistema che, decidendo e normando, sacrifica e lascia indietro soprattutto chi già arrancava.

«Qua c’è gente che ha lavorato e non sta prendendo niente, che è rimasta a casa nella prima chiusura e sta ancora aspettando la casa integrazione di settembre. L’Inps paga ma quando vuole. Noi prendiamo otto euro all’ora: l’ultima cassa integrazione ci ha pagato tre euro e cinquanta all’ora».

Ascoltando il suo sfogo via nota vocale non ho potuto fare a meno di pensare ai miei conoscenti – figli di famiglie benestanti – che nelle ultime settimane, lavorassero o meno, hanno organizzato feste affittando – a cifre folli – suite o ville private, oppure ad altri amici, conoscenti, che, lavorando nel mondo del collezionismo e delle case d’aste, non hanno avuto quasi alcun tipo di ripercussione dalla pandemia: hanno continuato a seguire i loro clienti in giro per l’Italia, con viaggi di lavoro di gruppo e cene in ristoranti autorizzanti (pare autorizzanti) ad accoglierli.

La sensazione è che chi accumula risorse sia stato messo bene o male nelle condizioni di continuare a farlo, mentre chi lavora per la sussistenza quotidiana si trovi oggi allo stremo: lo scenario è afflitto da squilibri di classe – per usare un’espressione che è bene ricominciare ad usare –, frutto di una visione della società sbilanciata, unilaterale.

Non è una pandemia per poveri: la crisi sanitaria ha agito e continua ad agire da catalizzatore delle disuguaglianze, in senso materiale, ma anche psicologico, dato che gli stessi regolamenti che di volta in volta rimodellano attività e chiusure hanno un peso, una ricaduta soggettiva diversa a seconda del reddito.

Le maggiori possibilità economiche si traducono in maggiori possibilità di movimento, di aggregazione, e anche di guadagno, equivalgono spesso alla facoltà di smorzare o proprio aggirare le regole, usufruendo di spazi e canali privilegiati, benché non sempre sicuri dal punto di vista sanitario.
Ieri mia madre, cinquantaquattro anni, ha ricevuto la prima dose del vaccino, ne ha avuto diritto in quanto, appunto, personale scolastico ausiliario.

«Anche se non si è ancora capito se e quando riprenderemo a lavorare», ha aggiunto col respiro affannoso, mentre correva a fare la spesa per mia nonna, settantasei anni, non ancora vaccinata e chiusa in casa col marito disabile da oltre un anno.

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