Arrivati vicini al dunque, rimangono ferme tanto la riluttanza dei leader di partito a sostenere apertamente questa soluzione, quanto l’evidenza da nessuno confutata che solo sul nome di Mario Draghi appare plausibile una convergenza da tutti i fronti (sinistra, destra, Cinque Stelle), tale da rendere la scelta del prossimo presidente della Repubblica se non unanime, politicamente trasversale e largamente condivisa.

Il tecnico decisionista sopra le parti, con grande reputazione internazionale, sarebbe la soluzione più ovvia, sostenuta da uno strabordante consenso nell’opinione pubblica, ma anche quella più difficile da maneggiare per la classe politica, che alla fine potrebbe preferire figure più duttili.

Le aperture sui nomi di Letizia Moratti, Elisabetta Casellati, Marcello Pera, così come l’autocandidatura di Silvio Berlusconi, continuano ad essere evocate ma non corrispondono ai tratti promessi da Matteo Salvini (alto profilo e capacità di raccogliere consensi oltre il centrodestra), il quale stavolta vuole risultare determinante nel trovare il punto di equilibrio invece che risultare causa di una rottura.

Per arrivare a Draghi devono essere superati i tentennamenti di Berlusconi a prendere atto dei suoi stessi limiti e di Conte a riconoscere che dal momento in cui si sono avvicendati a palazzo Chigi il suo successore ha assunto un ruolo chiave nella politica e nella società italiane.

La convergenza sul passaggio del premier al Quirinale presuppone che le stesse forze politiche condividano cosa salvare e cosa cambiare del governo da lui presieduto, nell’ultimo anno della legislatura, posto che non possiamo permetterci, come Paese, di sprecarlo solo per garantire altre dodici mensilità e la pensione ai parlamentari in carica.

Potrebbero utilmente accordarsi su cambiamenti minimi. Non perché tutti i ministri meritino dieci e lode, ma perché la discontinuità ha costi politici e di efficacia non compensati da adeguati vantaggi quando mancano solo dieci mesi (o meno) all’inizio della campagna elettorale. Comunque vada la partita del Quirinale, il governo dovrà fare tre cose: gestire l’attuazione del Pnrr, regolare con pragmatismo il ritorno alla normalità confidando che Omicron sia davvero l’ultima variante (estenuata dai vaccini) del virus, disegnare una legge di stabilità per il 2023 non troppo aderente agli interessi dei partiti in vista del voto. Non potrà fare molto altro.

Cambiare ministri chiave, vorrebbe dire consegnare ai dirigenti ministeriali la macchina del governo per buona parte del tempo realmente disponibile, mentre si approvano programmi di spesa imponenti.

La continuità non può che riguardare quindi anche Palazzo Chigi, attraverso una figura il più in linea possibile con l’attuale.

Non è detto che la continuità verrebbe garantita meglio se la classe politica dovesse dimostrare a Draghi di averlo preso in prestito per gestire la crisi ma di trovarlo ora troppo ingombrante per il Quirinale.

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