Dai commenti, di retroscenisti e folkloristi, deduco che per l’elezione al Quirinale è già stata superata la fase dei requisiti richiesti. Male. Per molti commentatori, comunque, il problema s’era posto solo con riferimento all’aggettivo ripetuto ad nauseam “divisivo”. Quasi sparita la necessità che il candidato/a dia garanzie di sapere proteggere ruolo, prerogative, potere della presidenza. Addirittura, Più Europa e Azione, per voce di Emma Bonino, hanno dichiarato di votare la signora (sic) Cartabia per fare la (quale?) riforma della giustizia arrivando così, inopinatamente, alla presidenza governante.

A questo evitabile proposito, è forse utile ricordare che il semipresidenzialismo de jure prevede che il presidente nomini comunque un primo ministro. Non so se il ministro Giorgetti temesse/tema (o auspicasse) che Draghi presidente della Repubblica significhi semipresidenzialismo di fatto con la scelta di un presidente del Consiglio di suo gradimento, ma il tema è posto nettamente in queste ore.

Premesso che desidererei che chi critica Draghi e il suo operato in quanto capo del governo dovrebbe coerentemente estendere la sua critica anche al più alto sponsor di Draghi, ovvero al presidente Sergio Mattarella, molti hanno capito che elezione del presidente e futuro del governo si intrecciano.

Chi vuole che Draghi rimanga al governo dovrebbe avere capito che l’attuale presidente del Consiglio vuole giustamente la garanzia che la maggioranza che lo sostiene sia quella che elegge il presidente della Repubblica e che, di conseguenza, s’impegni a coadiuvarne l’opera.

Dunque, il nuovo presidente deve più o meno esplicitamente prendere un impegno di continuità. Ci sono almeno due presidenziabili che quell’impegno sono disponibili a prenderlo, che non pretenderebbero di governare e che sono credibili. Non stanno, però, tra i tre nomi proposti dal centro-destra.

Quanto all’eventuale transizione, inusitata, da capo del governo a presidente della Repubblica, che sarebbe effettuata da un capo di governo inusitatamente non politico e non parlamentare, non serve a nulla limitarsi a notarne l’eccezionalità.

Necessario è chiedersi quali ne sarebbero le implicazioni istituzionali e politiche con riferimento al caso concreto del viaggio di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale.

Che succede al governo

Se quel viaggio è benedetto dalla maggioranza che sostiene Draghi, allora sarebbe opportuno che i leader dei partiti di maggioranza comunicassero (quasi certamente ne hanno già, per quanto separatamente, discusso con lui) al presidente che, se è vero che il presidente della Repubblica «nomina il presidente del Consiglio», la Costituzione materiale si basa sul suggerimento, talvolta anche di più, di uno o più nomi ad opera dei capi dei partiti i cui parlamentari daranno o no la fiducia all’incaricato dal presidente della Repubblica.

Insomma, Draghi eletto presidente della Repubblica deve sapere che potrà esercitare la moral suasion, ma che la politica di una democrazia parlamentare riconosce a partiti e parlamentari molti poteri e notevole flessibilità.

Talvolta mi illudo (non riesco a non farlo) che mettere in luce alcuni meccanismi, indicarne le modalità di attuazione e lo spazio di discrezionalità sia utile anche agli operatori ciascuno dei quali dispone di un quid di potere politico.

C’è un rischio per Draghi che sale al Colle, ma c’è anche un rischio per Draghi se al Colle salirà un politico troppo sensibile alle richieste dei partiti che lo hanno prescelto. Non è facile stabilire qual è il rischio minore e per chi (temo per il sistema politico italiano).  

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