Solo un sondaggista sbadato o un grillino doc che non vive dentro il grande raccordo anulare poteva sperare davvero che Virginia Raggi riuscisse a sedersi, di nuovo, sulla poltrona più alta del Campidoglio. Perché è vero che la spaccatura tra Roberto Gualtieri e Carlo Calenda dava qualche chance suppletiva rispetto alle stime della vigilia. Com’è un’evidenza che la destra abbia tirato fuori dal cilindro il tribuno Enrico Michetti, a memoria uno dei candidati più manchevoli che si ricordi. Eppure era impensabile che la sindaca non pagasse dazio per lo scatafascio in cui è precipitata la città eterna, disastro di cui è colpevole massima insieme ai suoi dirigenti e a chi, nel Movimento, l’ha da sempre appoggiata fino a favorirne l’autocandidatura.

Dopo essere stata assolta dal processo per falso, sembra dunque (quando questo articolo viene stampato lo spoglio non è ancora del tutto concluso) essere arrivato inesorabile il verdetto degli elettori: per loro Raggi è colpevole, senza se e senza ma. I primi cittadini uscenti hanno spesso il favore del pronostico o, quantomeno, un pacchetto consistente di voti dettati dalla fama e dal rapporto con un pezzo di opinione pubblica. La Giovanna d’Arco di Grillo ha invece preso appena il 20 cento dei voti per due elementari motivi: non ha rispettato le promesse proclamate urbi et orbi durante la trionfale campagna elettorale e ha non-governato Roma per un lunghissimo lustro, abbandonando la capitale a sé stessa e ai suoi abitanti oggi esanimi.

La vittoria dell’ex avvocato dello studio Previti si fondò sul mito dell’onestà, sul rilancio delle periferie, sulla mobilità alternativa e la lotta alle discariche. Soprattutto, si alimentò delle catastrofi di Gianni Alemanno, dei difetti atavici dei partiti tradizionali e dei loro giochi di potere, come quelli che costarono il posto al piddino Ignazio Marino.

Ha fatto peggio

Raggi a sorpresa è riuscita a fare peggio, dal punto di vista amministrativo, di gran parte dei suoi predecessori. Al netto dei cinghiali e dei topi, delle gaffe a ripetizione sulle “cupole del Colosseo” o sui bombardamenti “fascisti” a San Lorenzo, la sindaca ha sostituito oltre una dozzina tra assessori e vicesindaci, una ventina di amministratori delegati e manager delle partecipate del comune, oltre un numero indeterminato di dirigenti apicali. Generando caos e minando ogni catena di comando, fondamentale per governare una città complessa come Roma.

Di fatto, la Raggi ha preferito da subito “non fare”. Non fare appalti, non partecipare alle Olimpiadi, non investire. Il “poraccismo” issato a mantra e filosofia politica. Le condizioni dei trasporti pubblici, al netto delle difficoltà storiche di Atac e di dipendenti fannulloni, sono presto arrivati ai minimi termini. Metafore definitive le chiusure senza tempo delle stazioni della metropolitana per problemi alle scale mobili, e i bus in fiamme nel centro storico fotografati dai turisti. Sulla monnezza e l’igiene urbana ha pesato la confusione del management di Ama scelto da Raggi, l’ideologia anti impianti e l’assenza di impieghi intelligenti. Oggi la città è molto più sporca di quando ha cominciato la consiliatura, eppure la grillina non si è mai assunta alcuna responsabilità dello stato delle cose, dei suoi errori e di quelli dei suoi fedelissimi. Ha preferito rimpallare le responsabilità sui precorritori, o meglio ancora sulla regione Lazio governata da Nicola Zingaretti. Altre volte ha scaricato il barile sui municipi: come nel caso della vegetazione cresciuta all’improvviso su strade e marciapiedi di ogni quartiere, fenomeno vegetale provocato dalla decisione del comune di tagliare alcuni servizi dell’Ama. Obiettivo: risparmiare qualche spiccio e provare a sanare i bilanci della spa. Risultato: il nuovo sindaco di Roma per ripulire le erbacce che hanno occupato passi carrai e incroci dovrà spendere assai di più di quanto accantonato.

La sindaca pure sulla questione morale è stata deficitaria: incapace di selezionare la sua classe dirigente, ha scelto come collaboratori figure come Raffaele Marra, ex vicecapo di gabinetto poi condannato in primo grado per corruzione, e poi Luca Lanzalone, già messo a capo di Acea e consigliere della sindaca sul nuovo stadio della Roma, altra opera annunciata (al pari della funivia Battistini-Casalotti) ma di cui non è stata posata nemmeno una pietra.

Il “no” ai grandi eventi, i video celebrativi in cui la manutenzione di una strada viene raccontata nello storytelling come un’opera pubblica straordinaria, la devastazione dei parchi e dei giardini, il traffico impazzito a causa dei “cantieri elettorali”: tutto ha contribuito al declino di un’esperienza politica che rischia di finire qui. Perché la città è ferita, ma anche al masochismo c’è un limite.

 

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